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A proposito di branded content e cultura, di narrazione e valorizzazione: insomma, del dar voce a ciò che non ha voce. Il riordino dell’Archivio Storico dell’Opera Barolo, progetto quinquennale egregiamente condotto da Culturalpe, ha prodotto un censimento di aneddoti, spunti e storie. Il passo successivo, del quale sono stato incaricato, è consistito nello scegliere le parole più belle per raccontare Palazzo Barolo a Torino. Ho dovuto pormi in ascolto di quel mastodonte silenzioso, delle luci e dei sussurri annidati tra le crepe del suo corpo vivo e vibrante, per farne un corpo narrativo. Qui di seguito il prologo. La mia speranza è che passando in Via delle Orfane poi vi spunti un sorriso, come incontrando un amico.

Ch’io mai vi possa lasciar d’amare,
No, nol credete, pupille care,
Ne men per gioco v’ingannerò.
Voi foste e siete le mie faville,
E voi sarete, care pupille,
Il mio bel foco finch’io vivrò.

PIETRO METASTASIO

D’ORO IN ORO


Se uno prova a confessarvi un qualsiasi segreto, o accenna magari a una confidenza concessa da voi nel passato, strabuzzate gli occhi tutti tesi e guardinghi, portate un dito alle labbra e sibilate come bisce. È proprio così, rapite l’amico o l’amante e sgusciate nei prati per non farvi vedere: parete bisce anche voi. Io vi sento, sapete, lo dite continuamente, e a ragione: “Anche i muri hanno le orecchie!

È vero, altroché!

Ma voialtri mica parlate di pianelle e mattoni, voialtri neppure ci date uno sguardo, perché? Siete carne, sangue e respiro, vi credete migliori perché avete imparato a usare i bastoni e mischiare la calce, ma siete fatti di polvere come me e tutti quanti, e polvere tornerete di nuovo, anno per anno, dentro un muro nuovo di zecca, una nicchia piccina in un camposanto. Ve la dico io la verità, la metto sul piatto: i muri hanno le orecchie, e non solo. I muri son fatti di occhi e di mente, di sogni e speranze. I muri crepan d’invidia e non stan nella pelle: allora squamano, cadono, le ghiaie si muovono sotto le unghie fetenti dei vostri piedi raminghi, scivolano via in uno scolo, in cerca di libertà. Voi siete i signori del mondo, navigatori e poeti, ma nessuno è un signore senza un tetto sul cranio, e il tetto, miei cari, le travi ed i coppi, son roba mia e basta, roba che a serbarla costa fatica, e invece ci lasciate crollare.

Io sono vecchio, assai vecchio, avrò calcolato suppergiù duecent’anni. E allora? Se fossi di pietra andrei avanti anche mille, però queste membra oggigiorno son fatte anche d’altro, mica come una volta. Voi dite: “Le case, ah, come le facevano i vecchi!”. Cialtroni! I vecchi non setacciavano il letto del fiume, non aprivano cave nel cuore dei monti, non masticavano ghiaia per nutrire le loro città: i vecchi, i padri, si ficcavano dentro una grotta e accendevano il fuoco senza dare fastidio a nessuno.

Voi no, pretendete il camino, il loggiato e poi l’aia, un portone da chiudere a doppia mandata per timore del mondo che vi forzate a esplorare. Lasciatemi stare, son vecchio anche io. Fosse per voi, dovrei chiedere scusa per questo livore, ma la rabbia dei vecchi è una rabbia anche mia: una furia, altroché, d’esser stato lasciato qui solo a marcire.   

A suo tempo qui attorno eran viuzze e piazzacce per la povera gente, sapete: isola di Santa Brigida la chiamava la plebe stipata in quel pugno di case. Contrà dle pate, o “contrada dei cenci” pareva un nido di pulli a becco spalancato sotto le candide ali della Santissima Annunziata: tutti straccioni in cerca di una elemosina o due gettata dalle Figlie Orfane della Città, suorine vestite d’azzurro e di bianco che accompagnano i vostri defunti. Sulla piazza a occidente, o Piazza Paesana, si teneva il mercato della paglia e del legno dove i villani arrivavano a mendicare qualche commessa. 

Fu il duca, per decreto siglato con quel suo doppio nome, ad aprire un canale proprio qua in mezzo, così da portare l’acqua del fiume, la Dora, verso i giardini di corte. Là andava a titillare le gioie delle sue madamine in segreto, così si dice. Io ne son certo perché, sorpresa: tra muri parliamo. E come strillano quelle, difficile far finta di niente: “Ooh vostra grazia, ooh Signor Duca, ooh Filiberto!

Quella pensata fece oltremodo contenta la biscia vegliarda del riverito gran Duca, cionondimeno portò alle mie estremità rattazzi e zanzare, e ometto per buona creanza di riferire i particolari scabrosi accolti negli angoli scuri, gli odori mefitici e il sudiciume morale. Ho retto finché ho potuto. E sì che i miei muri erano e restano di tutto rispetto, a un passo dalla Consolata e dalle sue forme sante. C’è un giardino al mio centro, come voi avete i vostri, e prezioso altrettanto: una corte d’onore e una rustica. In me sono iati colmi di spirito che chiamate saloni; attorno una corona di celle e di camere, e accanto, se vi cale saperlo—giacché sovente cercate e godete del buon vicinato—Giovanni Battista Humolio consigliere di Stato ha il suo scranno, e così Bernardino Brocardo, senatore anche lui, nonché il procuratore ducale Giovanni Francesco Ferrandino.

Tuttavia, poco cambia: siano duchi o bifolchi, il trattamento riservato a noialtri è sempre lo stesso. I muri, signore e signori, li comprate senza chiederci niente, come schiavi o giumente, per poi farvene vanto. C’è stato un tempo in cui i vostri preti correvano umili a unger le carni dei nostri corpi fanciulli. Olio, acqua o incenso che fosse, venivamo cosparsi e benedetti, e ci chiamavate poi “casa”, ci chiamavate poi “vostra”. Ora i pii sono rimasti ben pochi. Ma il mio popolo vi osserva: torri, torrioni, palazzi e poi piazze, slarghi e crocicchi, prigioni e anche chiese. Siamo tanti, e furiosi per il sonno ancestrale a cui avete strappato le pietre e la polvere conferendo rigide forme alle forme innocenti, incantati dalle geometrie ardite, dalle menti acutissime dei vostri architetti.

Ingrati! Ora rittane e bealere guastano la salute tenace che ci vantavamo d’avere! Ora, decrepiti e stanchi, ci date via come stracci. La marchesa Beatrice mi ha rinnegato e ceduto per trenta denari a un nuovo carceriere, un signorotto suo amico, senza farmi domande. “Il vero e giusto prezzo di scudi tre millia cinque cento d’oro in oro” pare abbia estorto la marchesa a questo tal conte Carlo Francesco Provana, vincolandolo a chiedere, per metter mano alle mie parti, la sua approvazione fino a saldo compiuto. Pertanto, senza alcuna abluzione—perché muscoso e cadente non ne vale la pena—voialtri adesso vi rivolgete a me con un nome diverso: uno sberleffo par quasi. “Casa Provana” è il mio nome nuovo…*

* Il testo integrale è di prossima pubblicazione.