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LA GRANDE OPERA, LE PAROLE D’ORO

Come fai a riprenderti una geografia dopo che ti hanno portato via una storia d’amore? (Michela Murgia)

Opere di soglia

Percorrendo l’A11 dalla Versilia verso Firenze, a un certo punto, degli archi scarlatti sorretti da pilastri alti una dozzina di metri corrono in una fuga prospettica di qua e di là. Questo centopiedi l’autostrada lo trancia di netto, ne rompe la corsa, lo spezza. È l’acquedotto Nottolini di Lucca. Se hai curiosità per le vie meno note fuori le mura—o vuoi fuggire quella Babele sfacciata del centro—non puoi ignorarlo: le stradine della campagna lucchese alle pendici del Monte Pisano ci passano sotto continuamente, come bimbi sotto le gonne.

Io gli corro accanto al tramonto, ed è una presenza possente, materica, a tratti soverchiante. Un esempio di archeologia industriale, vestigia di un passato neanche poi così lontano… opere sulla soglia di due mondi, “prerivoluzionarie”, se vogliamo: nate prima dell’utilizzo massiccio di fonti fossili, prima della rivoluzione industriale. Fu l’architetto Lorenzo Nottolini—lo stesso della blasonata, instagrammata Piazza dell’Anfiteatro poco distante—a immaginarlo, così da levare i poveracci dai pozzi marci e dalle fontane insalubri (i ricchi si facevano portare l’acqua potabile dalla campagna). Un’opera a beneficio degli ultimi, insomma, per il bene comune.

Inizio dei lavori: 1823. 459 archi, 460 pilastri per quattro chilometri di lunghezza, due cisterne di depurazione in stile neoclassico a Guamo e San Concordio. Li chiamano “tempietti” perché sono addirittura belli—o perché l’acqua è sacra? Mah!—28 anni per tracciare quella linea rossa nel paesaggio, un’opera certosina, di scrittura e riscrittura, tra due punti a un capo e all’altro. Finalmente, le fonti di Guamo erano collegate al baluardo, o bastione, di San Colombano: la sete della città estinta.

Opere più grandi

Quel nome, Colombano, sussurralo all’orecchio di un valsusino e vedrai se non gli scorre acqua dagli occhi. Già, perché Colombano per noi è Colombano Romean, è il Pertus di Chiomonte, la grande opera idraulica della Valle, ma non l’unica: c’è il quattrocentesco canale Maria Bona, che porta l’acqua del Clarea a Giaglione. E lì, proprio in Clarea, c’è un mulino medievale le cui macine producevano olio di noce, esempio luminoso della tecnica preindustriale del Piemonte. Infine, oltre le reti, un altro pertus, “grande opera” da cui però non esce una goccia, e che anzi vive l’acqua del Clarea come un fastidio. Dappertutto, dappertutto lo stesso.

Il primo pilastro del Nottolini saltò per iniziativa dei fascisti: ci dovevano far correre sotto la superstrada futurista. Anni dopo a un crucco corse un brivido lungo la schiena: l’acqudotto reificava la Linea Gotica, l’avanzata degli Alleati andava fermata; comandò “Komm schon! Fatelo zaltare!” Ultimi arrivarono i capitalisti, e addio altri cinque pilastri: un’opera più grande, ferocemente grande, s’impose sulla prima, per correre alle spiagge, in ufficio, per fatturare, correre, correre!

In fondo al centopiedi, a Guamo, mi guida una segnaletica spicciola, scarabocchiata su legni di recupero. Dice: “Le parole d’oro”. Magari è un agriturismo, ma mi piace. Asciugo il sudore, prendo fiato e risalgo la collina. Il sentiero s’inoltra nel bosco di rovererelle, di pini, d’allori, fino ad aprirsi su una radura attraversata da canali in muratura e punteggiata da “bottini d’ispezione” straordinariamente simili a piloni. Tutto è contenuto, ammascato con la materia del luogo: roccia, edera, muschi.

Opere liquide

Sulla sorgente di Serra Vespasiata c’è un ponticello con una lunga iscrizione dorata:

KAR.LVD.BORB.I.H.DUX.N.AUG.AQUIS.E.PLURIBUS FONTIUM ORIBUS.COLLIGENDIS.ET AD URBANOS PONTES LARGIUS PERDUCENDIS.MONUMENTO.AETERNO.PROVIDIT.DUCATUS.SUI.ANNO.VI

Carlo Ludovico Borbone duce uomo nobilissimo e augusto provvide nell’anno VI del suo ducato a raccogliere le acque da molteplici sorgenti e a portarle più largamente verso gli acquedotti cittadini con movimento eterno

Onore, sempre alla committenza. Quelle lettere d’ottone, i contadini credevano fossero d’oro, da qui il nome della località. Mi siedo sull’erba, osservo. Qui non ci sono archi né pilastri, i metameri del centopiedi—i segmenti in cui è suddiviso il suo corpo—sono invisibili, sprofondati nella terra, cristallini tra le sorgenti segrete, lui stesso acqua, spirito equoreo che s’ammassa, s’attorce, riposa. Altrove, lontano, sotto le mie montagne accade lo stesso, e mi chiedo se le parole spostino le montagne, quali parole possano sostenerle, se bastino parole liquide a cambiare il corso delle cose. Rileggo ancora una volta: con movimento eterno

Se il centopiedi è vivo, devo cercarlo tra le colline, chiamarlo con parole d’oro, invitarlo sulle montagne a imbastire alleanze.

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