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IL CAPITALISMO SPIEGATO AL MIO CANE

Una formica cammina sullo schermo, passa tra i segni lasciati dal cursore e scappa via. Come una virgola raminga o un pensiero reticente, di farsi intrappolare tra le parole non ha alcuna intenzione. Siedo al tavolo in giardino e le formiche perlustrano la superficie, salgono sui tasti, gironzolano sulle mie mani. Che gran fortuna questa qui: avere un’oasi dal trambusto, una tana infestata di fiori e bestiazze in cui fuggire mentre sento correre le auto, urlare dalle finestre.

Heidi riposa un po’ più in là, corre gioca assaggia nei suoi sogni. Mi domando se ancora ricordi la breve scappatella in centro, lei che ha un quotidiano affollato di incontri e di scoperte ma non una mappa delle cose. Tra il giardino di casa, il parchetto di via Servais e la Pellerina ci sono selve di cemento e di rumore: i parchi cittadini sono radure dove prender fiato e un po’ di luce, non saprei dire se più per me o per lei. In fondo ai viali la collina si staglia come un’onda lì lì per travolgere tutto questo e tutti noi. Magari accadesse.

Ma Heidi così lontano non ci vede, sprofonda il naso in mezzo all’erba.

Tra via Garibaldi e corso Palestro—il centro quello bello, per inciso, dello struscio del sabato pomeriggio—il suo naso non aveva altro da annusare se non il piscio d’altri cani, i resti del mercato e aroma di caffè. Un po’ per quello, un po’ perché metteva i denti, pareva svuotata d’ogni curiosità ed entusiasmo: “Perché mi ci hai portato?” Avevo un cellulare da riparare, non volevo lasciarla sola a casa. In più conviene abituarla a tanta gente, alla metro, al cicaleccio.

Ma davvero? Salvo le escursioni ai giardinetti per vie laterali e solitarie e gli incontri con umani compiacenti e cani spesso sciolti, noi si va sempre dove la giungla urbana muore. In mare aperto i profumi sono buoni, i campi li solcano i trattori; tra i boschi, di tanto in tanto, aggalla un atollo, un paese. Heidi è piccola, così posso venderle le parole altrui per mie, dirle che “un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

Tornare in paese, sai, è come trovarti dietro la porta. Mi guardi in silenzio, abbassi le orecchie e muovi la coda. Sei felice, mi rendi felice. Pochi altri aspettano tra i palazzi, tra gli stradoni e i negozi. A parte un pugno di amici, di noi due non importa niente a nessuno. Nessuno, quasi, sa che esistiamo. La maggior parte degli umani vive così, e muore così, praticamente in solitudine. Ti chiederai “Come mai? Cosa ci guadagnate?”

Ricordi all’incrocio con via Garibaldi il camioncino dei dolciumi? Profumo di zucchero filato, canditi e croccante. Non volevi saperne d’andar via, sembravi esserti ripresa tutt’a un tratto. Eppure, sotto quelli, intuivi l’afrore di benzina e olio motore, il lezzo d’immondizia. Abbiamo costruito un luna park con delizie di ogni sorta, filastrocche e sbruffonate per sopportare tutto il resto. Arricchiamo i giostrai vendendo il nostro tempo per un giro a calci in culo. Lontani dalla terra non sappiamo più chi siamo, nella galleria di specchi incontriamo volti esausti tutti uguali al nostro.

Come diceva James Hillman, “qualsiasi divinità può prevalere, farsi monoteistica” e il dio della comunicazione e degli scambi ha trionfato: “Ermes oggi è ovunque. Vola per l’etere, viaggia, telefona, attraversa ogni confine. Ermes è nel mercato, in quello azionario, visto che nel mondo capitalistico oggi tutti giocano in borsa, tutti attuano scambi, vanno in banca, commerciano, vendono, acquistano. E poi, naturalmente, c’è il World Wide Web, la rete mondiale di Internet.” In questo “stato di intossicazione comunicativa e informatica”, il monoteismo di Ermes ci ha portati a un’overdose di parole.

Ma tra i fantasmi di un mondo morente, io e te insieme fuggiamo, raggiungiamo l’immortale.

Quest’ultimo anno ha convinto chi già fiutava la carcassa della cultura a voltar le spalle al luna park di Ermes per pregare l’immortale. “Chi sarebbe?”, chiedi tu. L’immortale è chi sbugiarda le chimere, chi sempre spegne il chiasso, chi ferma tutto e rende ogni cosa scintillante, cristallino l’orizzonte. La morte. La terra e la morte. Anche chi non l’ha mai incontrata, quest’anno è stato messo a forza dinanzi all’imbarazzo della morte, ha dovuto chinar la testa di fronte a lei e, finalmente, ha visto la terra.

Chi voleva vivere e vive, cercando la terra ha trovato una casa ed è ora in cerca di casa in quel pugno di terra. Della terra è parte da sempre e va facendosi terra. Il suo cuore sta lì e muore ogni volta che scrive di lei, di voi, ogni giorno che vive, ogni parola di troppo la soffia in un passo. “Cosa resta?” vuoi sapere. La famiglia, i vivi e i morti, i cani e l’amore. Tutto in quell’onda che cade e travolge, ribalta, sconvolge, tutto cambiato, tutto versato, tutto di nuovo, tutto daccapo.   


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