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NON SIAMO MACCHINE. CONTRO LA RETORICA DELLA RIPARTENZA

Uno dei ricordi felici dell’infanzia: io e papà ci teniamo la pancia dal gran ridere guardando le peripezie di Ugo Fantozzi. Sghignazziamo di gusto per il frittatone di cipolle di Fantozzi, per Fantozzi che tenta di prendere l’autobus al volo, per il cognome di Fantozzi storpiato, per la linguetta di Fantozzi e “Fantozzi, tenghi” e “vadi, Fantozzi!” Ai miei occhi di bambino, Paolo Villaggio è l’ennesimo esilarante cartone animato, sovrano indiscusso della commedia. Crescendo quella figura antieroica, parossistica, si è velata sempre di più di malinconia, gravata da un’umanità palpabile soprattutto nei primi due film diretti da Luciano Salce. Non a caso, da piccino, Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976) mi divertivano meno.

Mano a mano sono emerse le somiglianze tra le risate amare di Fantozzi e quelle amare di mio padre, impiegato come Fantozzi e come lui circondato da Filini, Catellani, da Silvani e da Calboni, arrivisti mediocri e saltimbanchi dell’Italietta meschina e lestofante, cui certo apparteneva a modo suo e tutti noi apparteniamo. A mano a mano, come cantava Rino Gaetano, la poetica dello scrittore Villaggio ha prevalso in me sulla maschera cinematografica di Fantozzi, e quando Villaggio è morto, nel 2017, mi venne spontaneo dire che avevamo perso uno che con le parole ci sapeva fare davvero, uno che in poche battute aveva saputo riassumere le miserie e le speranze di tante donne e uomini. Un poeta.

Le parole odierne confermano la vivacità dei colori del ritratto d’Italia “fondata sul lavoro” dipinto allora da Villaggio; forse per questo Rosk e Loste hanno scelto Fantozzi per il murales di zona Certosa, ai piedi del redivivo Ponte Morandi. Dopo aver cicalato per anni sulle disumane condizioni lavorative, dopo aver pasteggiato sulla carcassa del vituperato Stato, nella “Fase 2” tanti indossano il vestito buono e prendono la via dell’ufficio sorridenti come fosse il primo giorno di scuola. Ricordano il finale di uno dei film di Neri Parenti, non dei migliori, nel quale il pensionato Fantozzi s’imbuca alle uscite della Megaditta per rivivere “i bei tempi” e arriva a pagare i padroni con la pensione pur di tornare a lavorare.

Farebbe ridere, se il lockdown non avesse ribadito, sostanzialmente, la natura intrinsecamente fantozziana di molti.

Parcellizzata e digitalizzata, la Megaditta con tutti i suoi tentacoli ci ha ingozzato di relazioni surrogate e noi, ben contenti di rifuggire solitudine ed esami di coscienza, frettolosi di lasciarci fagocitare da una “normalità” spensierata ed egoista, per non dire criminale, ci siamo resi inconsapevolmente complici. Incapaci d’identificarci in altro dal nostro lavoro, siamo rimasti in attesa. In più, la trincea retorica del “torneremo ad abbracciarci” ha occultato una vera e propria scoliosi dell’anima che, privata di categorie, nomi e “Di-cosa-ti-occupi?” s’è fatta presto spettro.

Come ne La città incantata di Hayao Miyazaki gli spettri ricorrono alle maschere per rendersi visibili, noi calziamo un curriculum, un ruolo, un’identità confezionata dal mercato a cui abbiamo aderito per unirci alla parata. Senza quella siamo nulla. Come Fantozzi, appunto. L’entusiasmo per la “ripartenza” del carrozzone mi rattrista, e mi rattrista veder sbandierare un termine che ascrive le vite umane e non umane a motori, a macchine. Le “risorse umane” giurano d’aver pazientemente sospirato per 50 giorni conducendo una vita che non era vita, bensì una pausa dalla “vera vita” (parole loro), e ora vengono rimesse in moto! Agli “animali da reddito”, invece, neppure è mai stato concesso un fermo dal massacro.

Così, subdolamente il capitalismo responsabile della “Fase 1” gode e sguazza nei nostri panegirici.

Tutto ricomincia tale e quale e, assieme a chi davvero pena, innumerevoli Fantozzi agili gioiscono della riassunzione: “Io le confesso che ricomincerei a vivere così, perché ora non si vede ma sto morendo”. Che importa se la salute è a rischio, che importa se la CO2 è crollata del 35% in due mesi, che importa se abbiamo dimostrato di poter sopravvivere anche rallentando. Correndo a difendere la velocità giurando che l’attesa non è vita mettiamo nero su bianco l’inettitudine non solo a leggere tra le righe delle cose ma persino a vivere davvero. Non esiste attesa per chi vive immerso nel momento, la vita è valente in ogni istante e nella stasi, in natura, c’è sempre mutamento: nel letargo, nella crisalide, nel seme.

A caricature e spettri, ad animali atrofizzati e chihuahua morali, grigi Fantozzi, non resta che augurare buona ripartenza e buon abisso. Tuttavia, resta una speranza. Ci sono dei momenti, lampi e scintille nella poetica di Paolo Villaggio, dove il perdente frustrato dai “non l’hai mai fatto, non hai il fisico adatto” alza la testa, trova la forza; tanto vale correre il rischio, quello buono, di prendere l’autobus al volo, di vedere la speranza farsi realtà. A chi ha avuto la fortuna di coltivare questo tempo come spazio di transizione, uscendo dal proprio nucleo e ponendosi in ascolto, non solo dell’umano; a chi emerge dal bozzolo portando con sé una visione, io dico vada come vada, proviamoci: se falliremo, falliremo per rialzarci. “Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato!

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