
DIARIO DELLE PICCOLE COSE
Ad amici e vicini che osservano due piani più in alto, sempre racconto di avere questa fortuna: una piccola casa con un cuore sul retro che chiamo “la selva”. Pare di aprire le finestre su un romanzo di Salgari: una giungla fitta di edere e liane, di fiori e bestiazze che vanno lontano per poi ritornare, perché dove puoi andare in città che sia meglio di questo giardino? Tra palazzi e negozi, vicoli e strade, la casa si presta a qualsiasi ritiro: qui ho scelto di vivere il tempo che ho avuto, e il tempo è passato, con le sue amenità ed i suoi insegnamenti.
Sovente gli amici o i miei cari chiedevano: “Non ti senti un po’ solo?” Rispondevo indicando il mondo nel mondo che curo, e nel quale ho fiducia. Ne son parte anche io. Chi viene, noialtri lo lasciamo entrare: tutti quanti accogliamo e nutriamo. Corrono invisibili i fili che escon dagli occhi e intrecciano i sensi: qui s’impara a parlare davvero. Perché le parole non bastano a surrogare l’incontro, e il corpo racconta una via più sincera. Dai dialoghi è nato un diario d’immagini e suoni: 15 fili da unire, 15 doni per chi ha nostalgia di piccole cose a cui voler bene.
Stanco di ciò che viene parlando, parole senza linguaggio
sono venuto sull’isola coperta di neve.
La selva non possiede parole.
In ogni dove si spandono pagine vuote!
Nella neve m’imbatto in tracce di zoccoli di capriolo.
Linguaggio, ma non parole.TOMAS TRANSTROMER
1. CANTI NOTTURNI
È venuto improvviso, assieme alla primavera, un silenzio solenne. Il silenzio, all’inizio, ha confuso anche i merli. Intonavano canti notturni, come noi dai balconi. Ho scelto d’immergermi in quei loro racconti, ho goduto i sussurri, ho cantato con loro: “Dove son tutti quanti? Dove sono finiti?” Pareva una notte d’estate, le quattro di notte alla mezza.
2. COLORE
Prima le viole, poi le forsizie, quindi le primule, le gemme e i ligustri. Man mano la primavera del mondo nel mondo si è schiusa. Ma dicono basti un vaso di rose, una macchia di sole da un lucernario a cacciare il grigio dei giorni anche in un bugigattolo urbano. Ogni donna hindu, nella sua routine giornaliera, prega una piantina di tulsi, il basilico, perché porti del bene alla casa. “Essere un fiore, è profonda responsabilità“, scriveva Emily Dickinson.
3. HANAMI
Il giapponese “Mono no aware” (物の哀れ) viene tradotto come “il pathos delle cose” o “empatia nei confronti delle cose”. La percezione della caducità, la consapevolezza dell’impermanenza incarnata dai fiori di ciliegio richiama la malinconia più diffusa, profonda e gentile che coglie la realtà della vita. Ecco il senso dell’Hanami (花見), la tradizione giapponese di contemplare ogni anno la fioritura dei sakura.
4. I MAESTRI
Prima d’incontrarli, ho sempre preferito i cani: così spudorati, chiassosi, così platealmente felici o irosi, somigliano tanto a noialtri. I gatti invece mantengono vivo e visibile il legame con la terra inumana. Specie i randagi come Lucio o Leone, vanno aspettati, sono un enigma, non si lascian domare. Avere un gatto per casa è sapere che non esiste possesso, ma solo amicizia, rispetto e costanza. Nei gatti trovo risposte, e immagini di ciò che voglio restare: a metà tra selvatico e no.
5. IL LAVORO
Mi piace star fermo come mi piace spaziare: il tempo non mi ha mai spaventato. Questo tempo è servito per progettare, pensare, agir di concerto con altri e realizzare le cose, finire quanto iniziato, tentar nuove strade. Dall’operosità indefessa delle formiche s’impara questo e anche altro: a ragionare assieme, a decidere da dove si parte, e dove arrivare. Si parlan tra loro, si scambian messaggi, san fare quadrato. Non c’è uno senza l’altro in un formicaio, e si serve una sola regina.
6. LA NOTTE
La Luna, la grande Luna, è spuntata una sera. Ero in giardino e lei sospesa lassù, nell’aria immota. I lumi dalle finestre vicine parevano pallidi dinanzi al suo volto radioso, chiaro come un giglio. Una luce diffusa su tutti fiori e le cose: pareva di stare sul fondo del mare. Ho espresso il desiderio che la calma durasse, e in quell’istante una stella è caduta. Ho lasciato il desiderio ad altri, perché il mio era ormai esaudito.

7. FUORI E DENTRO
C’è chi dice: se non puoi andare fuori, scivola dentro di te. Comprai una candela a Parigi, nel lontano 2003, per un franco: si era in gita scolastica, avevo 16 anni. La trascino di casa in casa da allora; nel frattempo tante idee son cambiate, comprese le mie nei confronti di quel “guardar dentro di sé”. Ho imparato il respiro, a chiudere gli occhi, il sorriso segreto del cuore. Oggi più che mai comprendo il mio Buddha di cera, ne condivido il silenzio.

8. IL MONDO NUOVO
Ho a lungo sperato di vedere fiorire, da tutto questo, un mondo migliore del mondo di ieri. Cose così, racconta chi insegna con libri e parole, si pensano sempre in momenti di crisi: l’essere umano naviga tra le disgrazie in cerca dei segni delle forze sottili. Ma se qualcosa può germogliare da ciò che è venuto, sarà una vita modesta, che s’alzerà lentamente alla luce non vista, dove meno t’aspetti che emerga: in ciascuno di noi.

9. TESSITORI
I ragni sono tra gli altri amici più cari. Rinnovando la casa, ho dovuto scansarli dagli angoli, invitarli a trovare spazi diversi in cui fare i funamboli e tessere sogni. Un mattino ho raccolto un piccolo saltatore con un barattolo vuoto. Non mi ero accorto d’avere lasciato un poco di spezia lì dentro, così, portandolo fuori, se ne è uscito in una nuvola rossa. Mi son chiesto che avrebbero pensato i compari vedendolo tornare profumato di cinnamomo.
10. I RICORDI
Tinteggiando le pareti o sistemando il giardino, più d’una volta ho udito la voce del nonno dire quel che diceva nelle mattine d’estate. Sedeva sul muro mentre io dipingevo i balconi della casa da lui costruita. Raccontava nel sole le storie vissute, scherzava e rideva, e “Bravo, Luca“, diceva bevendo un bicchiere, finché la nonna chiamava per pranzo, e ci si riposava. Se ne è andato un mattino d’estate, trafficando tra l’erba. I mattoni sussurrano ancora di lui, lo ricordano eccome.

11. LA PRIMA ROSA
Mi emoziona ogni volta veder sbocciare la regina dei fiori. Quest’anno era una grassa, burrosa sovrana, vestita di rosso e assai fragrante. Il suo profumo si è sparso per tutto il giardino; ci siamo inchinati in saluto, ammirando la bella più bella d’ogni altra regina vissuta, perché questo voleva. Le regine, si sa, si danno arie da gran dame, ma presto ne appaiono altre, principesse d’un rosso più vivo. Così anche lei è svanita sotto la pioggia, la bellezza sciupata in grazia e saggezza.

12. LA PIOGGIA
Da queste parti mancava la pioggia da ormai ben due mesi. La terra era secca e sapeva di polvere. Alle prime gocce, ho visto i fili d’erba farsi più verdi, come le guance a noi cambian di tono a sentire lusinghe. In un niente hanno preso coraggio, si son tesi alle nubi, quasi volessero, così invigoriti, affacciarsi lassù e scorgere i preziosi tesori immaginati dove non sai che si cela. Non siamo poi tanto diversi, l’erba e noialtri: andiamo tutti a tentoni verso luminose promesse.
13. I NOMI DEL MONDO
Un anno dopo il mio arrivo, pur garantendo un pasto ogni tanto e cambiandogli l’acqua perché nuotassero liete in quel poco di spazio, non avevo pensato di dare un nome anche a loro, le carpe giapponesi lasciate dall’inquilina di prima. E sì che tutto, qui intorno, ha nome e cognome! Ma a Macchia, Rubino, Tritone e Calliope è a lungo mancato: forse per questo eran schive, o forse perché sognano d’andare per fiumi, per laghi e di vivere libere come noialtri anche loro, senza storia né nome.
14. LO SPIRITO
Roma antica onorava i Lari, dèi di origine etrusca protettori della casa. Questo giardino è a sua volta vegliato da uno spirito buono, o forse più d’uno: non l’ho ancora capito. Con l’alloro converso ogni giorno volente o nolente: di primo mattino ramazzo i suoi petali, i semi o le foglie che lascia cadere. Considero un dialogo anch’esso, e sto attento che insetti ed uccelli non si facciano beffe del suo legno santo. Ci scambiamo favori, e per la frescura che dona è davvero un piacere.
15. “FESTINA LENTE”
“Festina lente“: affrettati lentamente. Svetonio attribuisce il motto all’imperatore Augusto, poi ripreso da Cosimo de’ Medici per l’insegna della flotta di Firenze: una tartaruga sormontata da una vela. La Firenze d’allora era ricca, colta e cosmopolita, ma al riparo dall’idea di velocità come valore partorita dall’ubriacatura del progresso, da un futurismo mai spento. Gli eventi ci hanno obbligato a piaceri più cauti, a gustare le cose con pazienza e giudizio, come una chiocciola la sua foglia.
È TEMPO DI TORNARE
Passeggio sotto i tigli rincasando dalla spesa, attraverso i giardini accanto a casa. Su queste panchine, dalla finestra ho visto seduto più di una volta qualcheduno: un nonno, sovente, stava lì senza far nulla, gli occhi socchiusi come il Buddha. Godeva il sole dopo giorni tra le mura, m’immagino. Spazi così punteggiano le periferie ben più che il centro, dove alla gente, fino a ieri, bastava la bellezza dei palazzi. Qui, gli anni Settanta hanno prodotto una chiesa tagliata con l’accetta, ingentilita dalle aiuole. Adesso, forse, le seconde son di gran lunga più ambite.
Il tappeto di soffioni è irradiato dalla luce radente. Il tramonto traversa le vetrate e sopra quelle, il campanile s’alza al cielo chiaro. Da poco le campane hanno scandito la chiusura delle attività: è quasi ora di cena. Sullo spartitraffico del corso, deserto, una cornacchia mi osserva a non più d’un metro, affatto intimidita. All’orizzonte, nell’aria limpida e odorosa, s’intuisce l’ombra azzurra delle cime. “È tempo di tornare“, penso, riconoscente per ciò che è stato e un po’ commosso. Nel mezzo di quello che verrà, non perdiamone il ricordo: restiamo immersi nel presente.
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