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PETALI E PAROLE

Si sta un po’ allentando la morsa di parole delle ultime settimane, quella in cui finivi stritolato accendendo la TV o scorrendo lo schermo del cellulare: “offensiva, battaglia, fronte, trincea, il mondo brucia, non stiamo bene a casa, presto torneremo alla normalità”. Tante parole per chiedersi se usciremo migliori dalla pandemia, parole per domandare cosa ci sia da imparare dal Corona. Le parole di Massimo Cacciari per rispondere: “Nulla, cosa vuoi imparare? A stare fermo? Il cervello che abbiamo è quello di 100.000 anni fa!” Parole, continuamente, per dire che la nostra “epoca dei desideri”, in cui viene apprezzato soprattutto chi “si mostra migliore o più felice”, è stata sostituita da una nuova epoca di bisogni: non conta più quale auto guidi, se il ristorante è stellato, che profumo hai usato. L’epoca dei desideri e dei sogni è stata sospesa, ma occorre imbellettarsi perché “tutto ripartirà esattamente come prima”.

Ci sono due possibili ragioni per affrettarsi a dire che nulla cambierà. La prima è la nostalgia per una quotidianità a conti fatti spietata e insostenibile, un privilegio di pochi ingordi. La seconda è l’incapacità di immaginare qualcos’altro e di lottare per crearlo. Anziché alimentare la fiducia e incoraggiare i cambiamenti, anziché spargere semi c’è chi scommette su corsi e ricorsi di ogni genere di miseria, probabilmente perché la fantasia altrui è un’insidia all’inedia anche detta comfort zone. Chi critica di rado difende la sua tesi con meditazioni acute; piuttosto abbatte gli entusiasmi con parole avvelenate da una carriera da “demotivato miscredente”, per citare Franca Valeri. S’intuisce il peso dei fallimenti, di un disincanto calcificato in disfattismo. A forza di respirare letame, si sa, uno finisce per non accorgersi più dell’odore. Peccato sfugga a questi tali la consapevolezza di essere la fonte precipua di tutto il putridume, se non la sola.

In fila per comprare latte e pane, a me capita di pensare che la museruola che soffoca le voci ha ossigenato la luce degli sguardi. Una piccola cosa, una differenza immensa: abbiamo appreso la pazienza.

Per anni abbiamo detto “less is more”, per anni abbiamo condiviso alla nausea il mantra “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Adesso l’essenziale è indicato addirittura per decreto, eppure si addita come ingenuo chi intuisce nuove strade, e l’accusa d’abbracciare acriticamente quel che viene giunge sempre da chi abbraccia acriticamente quel che è stato.

Mi sovviene che da bambino interrogavo i fiori traendone dei segni in cerca di conferme sulle corrispondenze d’amore. Crescendo ho imparato—sono stato addestrato—a fidarmi della mente. Ma la mente dubita, la mente è vigliacca, la mente deride chi sa immaginare, tarpa le ali a ogni anelito. “È tutto inutile”, sibila col suo arsenale di parole. La mente mente. Meglio porsi in ascolto un’altra volta, facendo d’ogni pensiero un petalo e strappandolo dal calice custode dei segreti: il proprio centro.

Sorridere per la gioia della fauna selvatica è patetico? È patetico cantare il cielo colmo della vastità di un desiderio che poco ha a che fare con le cose? Desiderare viene dal latino de e siderare, con il senso di “contemplare le stelle”. Il desiderio nasce dalla nostalgia del cielo stellato, dalla mancanza di una stella polare, di una bussola morale. Il sogno d’incontrarci riempie piazze e strade vuote. Roberta de Monticelli ha scritto che ci sono stagioni in cui accade che “la stella della vocazione si accenda in molte persone contemporaneamente. Così una stella, più un’altra stella, più un’altra ancora, e ancora un’altra, possono formare una grandiosa costellazione”, illuminando un nuovo sentiero: “la strada che porta l’umanità altrove”.

In cerca delle ombre della routine abbiamo spalancato le porte digitali sull’intimità imperfetta delle nostre tane. Così abbiamo offerto uno spazio da abitare anche alle nostre debolezze. Il re è nudo.

Là fuori non c’è alcun incendio da domare, né siamo tenuti sotto assedio da un nemico. Là fuori è l’affresco dipinto nel 1320 nella Basilica Inferiore di Assisi: San Francesco ancora imberbe con la mano sulla spalla di uno scheletro coronato. Là fuori ogni sirena è un “memento mori”. Se davvero fossimo gli stessi di 100.000 anni fa, se la mente rammentasse le verità ancestrali, sapremmo d’esserci smarriti. La stasi, la quiete, le radici ci hanno chiamati a una conversione, cioè rivolgimento in direzione opposta al vizio della quotidianità. Conversione non è speranza: è volontà. Il nome dato a questa cosa oscura può invitarci ad osservare l’umanità remota e la presente e a deporre falsi sogni e desideri di potenza. Il nome è destino, nomen omen. Siamo al mondo per raccogliere e cacciare, per godere l’essenziale e svanire tra le stelle. Verrà sì il tempo d’indossare una corona , ma i petali da espungere saranno ormai finiti, assieme alle parole.