
QUESTA COSA OSCURA
LA PESTE
Maat, la bilancia, nell’antico Egitto era venerata come una dea, scrive Italo Calvino in un passaggio delle Lezioni americane. Con i suoi libri non solo misurati ma quasi perfetti, Calvino doveva essere un devoto di Maat. Sull’idea di misura ha sognato l’immaginazione di molti. Scott Carey, colpito dalle radiazioni, rimpicciolisce un tantino al giorno, esattamente 3 millimetri al giorno, il titolo del romanzo di Richard Matheson. I petali dei fiori di ciliegio del regista Makoto Shinkai, che cadono a una velocità di 5 centimetri al secondo, sono la metafora della distanza che ci separa, e dell’amore che in essa sopravvive o soccombe.
Oggi l’esattezza, categoria calviniana, per colpa di un animale insidioso che ci ha messo letteralmente la museruola definisce una distanza calcolata dalla scienza e riassunta da Anna Mallamo nel suo bellissimo articolo Cento centimetri di separazione. Costretti per la prima volta da generazioni a una “responsabilità sociale” che abbiamo dimenticato e fatichiamo ad attuare—o forse non abbiamo mai avuto—, chiusi nelle nostre case, cosa facciamo? Sfogliamo le Lezioni, dove Calvino parlava, guarda un po’, di un’epidemia pestilenziale. Epidemia delle parole,
una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.
ALTRI 15 MINUTI
Noialtri abbiamo cavalcato questa pestilenza abusando di parole vaghe e concetti deboli che sminuivano l’animale insidioso. “È solo un’influenza”, abbiamo detto. Poi, ecco l’espansione incontrollata, le misure draconiane di contenimento, la raggelante previsione di un algoritmo: 14.000 contagi entro il 15 marzo. Ecco che la scritta sui nostri specchietti retrovisori diventa profetica: “Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto appaiano”. Una piccola peste dilaga anche nei corpi, silenziosa e famelica, e noi tracciamo un cerchio per proteggerci. A riguardo si è espresso Stefano Massini, eccezionale ed esattissimo:
Caro Coronavirus, tu mi stai profondamente sulle palle: perché racconti la nostra epoca meglio di qualunque altra cosa. Tu racconti un’epoca, la nostra, nella quale ciò che più ci interessa è non essere contaminati, ma non dal virus: da qualunque cosa venga da fuori, e che per noi è semplicemente sporca e inaccettabile perché non ci deve riguardare.
L’animale silenzioso sbugiarda la verità dietro tante parole fasulle, smaschera la nostra vigliaccheria, lascia nudo il narcisismo sfrenato di questi anni. Costringe i disperati a mentire un’altra volta: esibendosi, inventando stratagemmi per tirare a campare ancora un po’, iniettando flebo di capitale in un mondo febbricitante. Cercando ancora 15 esattissimi, miserabili minuti di celebrità. L’animale si arrampica sul nostro corpo, ride nelle nostre orecchie. Alla peste che “colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni”, Calvino opponeva “l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea di letteratura”. Intendeva una poetica, la poetica dell’esattezza.
POROSITÀ
A mia volta, non avendo per strumenti che le sudicie parole dell’animale delirante, cerco le parole esatte, e cercando trovo Shakespeare, La Tempesta, le trame di quel Prospero Duca di Milano (sic!) esiliato ed arrogante, macchinatore esperto d’arti magiche, per riconquistare il perduto ducato. Calibano, un tempo padrone dell’isola dove il dramma prende forma, complotta con altri per uccidere Prospero, che l’ha reso schiavo. Calibano è selvaggio, repellente, dominato dalle passioni più basse e primitive, a metà fra uomo e bestia. Tuttavia, nel confronto finale, Prospero riconosce la rabbia di Calibano, il suo odio, come il prodotto delle proprie azioni, quasi una parte di sé: “This thing of darkness I acknowledge mine.”
Fermiamoci, plachiamo le chiacchiere, facciamo silenzio. Fermandoci l’aria si fa limpida, lasciamo spazio ad animali meno folli di noi. Fermandoci, troviamo le parole esatte. Una di queste è porosità. Ne parlava già Lucrezio dicendo che tutti i corpi sono porosi. La filosofa femminista Stacey Alaimo ha traslato la tesi lucreziana nel concetto di trancorporeità, l’idea che l’illusione del cerchio attorno ai corpi abbia prodotto esiti nefasti. Disfiamoci del cerchio, facciamo spazio: osserviamo le volpi scivolare per le strade delle città buie, gli uccelli esiliati nel cielo riprendersi la terra, respiriamo le filosofie custodite nei boccioli. Accettiamo la vulnerabilità e ringraziamo l’animale che ha diradato le nostre ipocrisie, questa cosa oscura che riconosco come mia.