
CIBELE. DENTRO LE GROTTE DI TOIRANO
A quegli incontri che capitano senza che uno mai li cerchi, sedimentano e producono nuove metamorfosi, uno dà il benvenuto e dice GRAZIE. È questo il caso. Sono stato invitato a partecipare a un press tour alle Grotte di Toirano, in Liguria, per aggiungere la voce di Storyterrae al commentario della Settimana del Pianeta Terra, un festival scientifico che dal 2012 diffonde su tutto il territorio nazionale consapevolezza sul fragile paesaggio al quale apparteniamo. Spulciate tra i “Geoeventi” che si terranno dal 13 al 20 ottobre e capirete l’entusiasmo: escursioni, visite guidate, porte aperte nei musei e nei centri di ricerca, esposizioni e laboratori, conferenze e workshop… nel 2018 hanno partecipato circa 80 mila persone! Il festival nato dall’idea del paleontologo Rodolfo Coccioni e del geologo Silvio Seno avvicina la scienza al grande pubblico, promuove un turismo culturale sensibile ai valori ambientali, alla bellezza e talvolta, per chi sa porsi in ascolto, anche al sacro. Entrando nel ventre di Cibele grazie agli scatti del fantastico Mattia Marinolli, fate silenzio e aprite bene le orecchie: non lasciate ogni speranza, osservatela risplendere.
Quare magna deum mater materque ferarum et nostri genetrix haec dicta est corporis una. (Perciò essa sola fu detta Gran Madre degli dei e madre delle fiere e genitrice del nostro corpo.)
Lucrezio
PIONIERI
“Si diceva che fosse possibile aggirarsi per giorni e notti di seguito in mezzo a quell’intricato groviglio di fenditure e voragini, senza mai trovare il fondo della grotta; e che si sarebbe potuti scendere sempre e sempre di più nelle viscere della terra con lo stesso risultato… un labirinto dopo l’altro, senza mai arrivare alla fine. Nessuno ‘conosceva’ interamente la caverna. Sarebbe stato impossibile. La maggior parte dei giovani ne conosceva solo una parte e tutti cercavano di non avventurarsi molto oltre questa parte nota. Tom Sawyer non conosceva quel luogo meglio degli altri…”
Gioco a cercare somiglianze tra Toirano e la caverna McDougal descritta da Mark Twain ne Le avventure di Tom Sawyer. Anche qui, l’imboccatura della gola è resa familiare da tanti passi ed esplorazioni un po’ per svago un po’ per sfida; i nomi enfatici lì erano il Salotto, la Cattedrale, il Palazzo di Aladino, qui sono il Corridoio delle Impronte, il Cimitero degli Orsi, la Sala dei Misteri. La Grotta della Bàsura, ossia della strega, una gola che si addentra per due chilometri sotto la montagna congiungendosi più in basso alla Grotta di Santa Lucia, evoca ricordi e sussurri letterari. Nel romanzo di Twain, Tom e la fidanzatina Becky giocano a decifrare sulle pareti l’intricata ragnatela di nomi, date e frasi scarabocchiate col nerofumo delle candele. Con l’ambizione di scoprire nuovi passaggi si staccano dal gruppo, si spingono avanti, smarriscono la strada e trascorrono due giorni e tre notti lì dentro in un crescendo d’angoscia.
La nostra comitiva non procede spalla a spalla a lume di candela: il percorso è irradiato dalle luci elettriche, siamo aiutati dalle passerelle, dai mancorrenti, dalla segnaletica; il progresso ha reso impervio il luogo solo a chi indossa scarpe a suola liscia. Ciononostante, restiamo compatti e disciplinati. L’idea di inoltrarsi senza guida in cunicoli secondari non sfiora la mente di nessuno, neppure dei geologi. La Bàsura, parte di un reticolo carsico rosicchiato nel fianco del Monte San Pietro dalle acque sotterranee nel corso di 2 milioni di anni, conserva l’aura maestosa e selvaggia percepita nel 1950 da alcuni grottieri di Toirano. La corrente d’aria che giungeva dal fondo del primo ambiente lasciava infatti intuire la presenza di cunicoli ancora inesplorati, e i grottieri, ben più navigati dell’orfano scapestrato immaginato da Mark Twain, spezzarono il diaframma aprendo un passaggio inviolato da più di 12.000 anni. Immutato, se non impercettibilmente.
Le concrezioni calcaree che si formano in centinaia di migliaia di anni con il gocciolamento dell’acqua, in quell’intervallo di tempo erano “cresciute” di appena 10-12 centimetri. Vaste stanze si mostravano per la prima volta alla luce delle torce elettriche, rivelando drappi, vele, bozzi e bitorzoli levigati e fradici: corpi scolpiti non dalla mano umana ma dal picchettare paziente delle gocce d’acqua, una via l’altra, una dopo l’altra: plick! plick!… plick! Il tempo aveva costruito ogni cosa. Il silenzio, nella grotta, provava agli umani il suo talento.
Procedendo nella prima sala, disposta longitudinalmente rispetto al passaggio, alla base di una ripa calcarea le torce dei grottieri illuminarono una serie di orme lasciate sul pavimento argilloso. Piedi piccini, segni di carbone e impronte di mani sulle pareti. Più oltre si scendeva a un piccolo laghetto popolato da crostacei ipogei (Niphargus), gamberetti pallidi e ciechi come creature abissali. Ormai penetrati 400 metri nel ventre della montagna, gli esploratori arrivarono a un’ampia sala dal soffitto basso, dove alle impronte sulle arcate si aggiungevano graffi e palline d’argilla, più una larga stalagmite la cui superficie, coperta dello stesso materiale argilloso, era percorsa da innumerevoli ditate. In presenza di quella sorta di idolo e di numerose ossa d’animali al suolo, venne spontaneo battezzare questa parte della Bàsura Sala dei Misteri.
UOMINI E NO
La Liguria era nota alla comunità scientifica per i ritrovamenti di asce in selce appartenute a uomini di Neanderthal, così gli studiosi accorsi a Toirano—prima fra tutte l’archeologa Virginia “Ginetta” Chiappella (1905-1988)—associarono spontaneamente quei segni al Paleolitico Medio. L’ipotesi sembrava reggere, specie in presenza dei resti sul terreno: ossa di orsi delle caverne (Ursus spelaeus), contemporanei dei Neanderthal e loro rivali per il possesso delle grotte. Era abitudine dei cacciatori addentrarsi nei cunicoli e stanare col fuoco femmine e cuccioli, di dimensioni simili all’orso bruno; i maschi, che in posizione eretta potevano raggiungere i 3 metri di altezza e pesare fino una tonnellata, venivano invece massacrati durante il letargo, nelle profondità mute delle grotte. Il ritrovamento altrove di punte di pietra conficcate nelle ossa lascia ipotizzare che l’attività predatoria dell’uomo abbia contribuito all’estinzione dello spelaeus.
In ogni caso: ossa d’orso, carbone, graffi sulle pareti, idoli di fango… tutto torna! Sedotti dalla Bàsura, lanciamo l’immaginazione in un’oscurità dove strisciano uomini nudi, s’agitano le fiamme, un ruglio emerge dall’ombra, e poi zanne e grida e sangue. Lotte ataviche si consumarono quaggiù, massacri e trionfi e danze sfrenate con maschere d’argilla e riti d’ogni sorta. A stemperare gli animi ci pensano i numeri, inventariati uno via l’altro, uno dopo l’altro, da Marta Zunino, direttore scientifico delle Grotte: “Le analisi col carbonio 14 compiute negli anni Settanta restituirono una datazione calibrata incompatibile: 14.400 anni, quindi Paleolitico Superiore. A quel tempo il Neanderthal aveva lasciato campo libero ai Sapiens Sapiens, cioè a noi. E noi non vivevano più nelle caverne; costruivamo tuttalpiù degli accampamenti attorno a esse. Chi erano quindi gli esploratori della Bàsura, e perché vi entrarono? Crediamo, ed è una tesi non priva di fondamento, che in questa spedizione non ci fosse alcuno scopo rituale, bensì che rappresenti una delle più antiche manifestazioni della innata curiosità della nostra specie.”




Nel Pleistocene, tra 50.000 e 24.000 anni fa, gli orsi si erano effettivamente avventurati nella Bàsura. Lo dimostrano le ossa trasportate dalle alluvioni nel cosiddetto Cimitero degli orsi, a valle della Sala dei Misteri. Qui sono stati rinvenuti resti di almeno 139 individui, soprattutto cuccioli al secondo o terzo letargo. L’assenza di segni di predazione lascia ipotizzare una morte naturale legata al difficile periodo d’ibernazione. In breve, l’incontro con gli umani nella Bàsura non avvenne. Gli orsi si estinsero e migliaia di anni più tardi arrivarono i nuovi visitatori. La paternità dei segni rinvenuti nel Corridoio delle Impronte è stata confermata dai risultati del progetto “Bàsura revisited”, avviato nel 2014 con il coordinamento di Elisabetta Starnini. Le piccole impronte sono dei piedi di un bimbo di età inferiore ai 4 anni, di un bambino di 7 e di un preadolescente di 11 anni, accompagnati da due adulti. 12.340 anni fa fu questo gruppo a procedere carponi nel fango, raso alla parete, reggendo delle torce. Li si può immaginare facilmente.
Gli adulti aprono la via brandendo rami di pino mugo che producono una fiamma vivace. Non sono torce ingombranti, avranno un diametro di 2-3 centimetri: potrebbero impugnarle anche i bambini, ma è meglio evitare che quei tre si diano fuoco ai capelli. Di tanto in tanto, sfregano le torce sulla roccia per ravvivare la fiamma, lasciando segni di carbone. Quei segni, oltre alle orme e al calco delle rotule e dei muscoli nel fango, consentirà migliaia di anni dopo agli scienziati di avanzare alcune ipotesi. Fuori dalla Bàsura, l’ultima fase della glaciazione fa dell’Europa occidentale una steppa aperta, le Alpi sono avvolte in una calotta glaciale e i cinque non indossano pelli o pellicce: deve essere perciò tarda primavera, estate al più tardi. Giunti nella Sala dei Misteri, ormai tranquillizzati, i bambini prendono a giocare con l’argilla. Si scagliano palle di fango, strillando finché gli adulti non intimano di smetterla. Raggiungono allora la sorellina più piccola, accucciata accanto alla stalagmite. Tutti e tre assieme scavano una buca e spalmano la melma sulla roccia, coprendola completamente. I segni delle loro ditate sono ancora lì, assieme all’argilla sulla parete, ormai coperta da un velo stalagmitico, il ricordo di un gioco vecchio 12.000 anni.
LA DEA
Fu la curiosità a guidarli, come guidò i grottieri di Toirano, come guidava Tom e Becky nel romanzo di Mark Twain, come guida tutti noi: la curiosità della nostra specie, che da tempi antichissimi trova nelle caverne la materializzazione di un ignoto connotato da magnificenza e magia. La caverna è nei miti dell’origine, nei miti della rinascita, nei riti d’iniziazione di numerosi popoli, compresi quelli occidentali. Vengono in mente le discese agli inferi della Grecia classica, il mito delle idee di Platone, il viaggio di Dante e quei suoi demoni così splendidamente umani. La grotta è depositaria di un’energia tellurica, è il luogo delle ierofanie, ossia della manifestazione del divino. Gesù nasce in una grotta. Coi suoi veli e i suoi iati, con le sue forme turgide e umide, la caverna rappresenta la fertilità, il femminino, il mistero della vita che giunge dalle viscere. Non a caso, nella psicologia junghiana, è l’archetipo dell’utero materno. È il grembo della Madre Terra, la Madre degli Dei: Cibele, che a Toirano ha una sala tutta sua.
L’Antro di Cibele, con le sue splendide concrezioni mammeolari, venne scoperto nel 1960 a completamento del circuito della Bàsura. Il prosciugamento del lago sotterraneo che ne occupava allora gli spazi, più l’apertura del tunnel artificiale che connette alla Grotta di Santa Lucia Inferiore, consentono di rivedere il sole senza tornare sui propri passi. Nessun rimpianto: possenti pareti scarlatte si ergono ai due lati, su splendidi coralloidi brillano cristalli di aragonite e, a chiudere il giro, l’imponente Sala del Pantheon custodisce una colonna calcarea di 8 metri d’altezza. Eppure, nonostante la sua bellezza, Santa Lucia risulta quasi familiare, circonfusa com’è di storie più domestiche, vicine ai nostri giorni: l’utilizzo come rifugio per le famiglie di Toirano durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, attualmente come cantina d’invecchiamento per i viticoltori locali. L’alone di mistero della Bàsura, nonostante le risposte ottenute, indugia, galleggia. D’altronde, si dice la caverna sia una rappresentazione concreta, materiale, dell’io primitivo, del rimosso nelle profondità dell’inconscio, di un’animalità che va percorsa, esplorata e ritrovata per scoprire un Sé più autentico. Uno come me che ama definirsi cacciatore-raccoglitore di frammenti immateriali da combinare in forma letteraria, un animale narrativo rintanato nei silenzi, in una caverna scorge un tesoro inesauribile di simboli.
Sono nomi e storie a spingermi oltre e che mi spingono qui e ora, mentre scrivo. Provo a dare un senso non tanto agli spazi percorsi, quanto alle suggestioni da essi suscitate. Una semplice cronaca di ciò che ho visto, la descrizione di un luogo non ne parla veramente e non mi basta. La materia contiene un alfabeto sterminato tutto suo, da decifrare allontanandosi dai sentieri più battuti, dalle leggi e dalle idee di chi ha scelto certi nomi e rammentava certe storie. Esercito e do seguito alla curiosità che spinse i padri nel profondo, dietro un soffio o una corrente, sotto terra e dentro l’acqua, in cerca di quanto riposa nel mio intimo, di metafore che schiudano dimensioni ancora ignote.
Chi era Cibele, innanzitutto? L’urgenza d’indagare l’analogia dei calcari coi suoi seni vigorosi, ammirati e riprodotti già da frigi e micenei, mi conduce al linguista olandese Robert S. P. Beekes. Questi ricordava che Cibele nell’antico frigio era chiamata Matar Kubileya o Kubeleya, con riferimento, forse, a una montagna. I coloni greci adottarono il culto e lo diffusero nella Grecia continentale e nelle colonie occidentali intorno al VI secolo a.C.. Qui venne assimilata a Rea, Demetra e Gaia, divinità femminile primordiale. A Roma era conosciuta come Magna Mater o Grande Madre, e il primo tempio le fu dedicato il 10 aprile 191 a. C. sul Palatino. La sua effige veniva spesso innestata in una nicchia (naìskos), forse a ricordo delle grotte scavate nelle montagne dell’Anatolia, dove sue rappresentazioni si trovano già intagliate con arte primitiva.
Ma cosa raccontava il suo mito? Personificazione della natura e della fecondità e signora delle fiere, viaggiava su un carro trainato da leoni, parlava dagli abissi e chiamava a scoprire gli abissi dentro al cuore. I luoghi della manifestazione della Dea erano molti, orgiastici i riti a lei dedicati. Può bastare un anfratto, una caverna oppure un parco a riconnetterci all’identità ancestrale, all’animalità sensuale addormentata dentro di noi? Talvolta, così pare. Dal buio una voce giunge chiara e comanda di cercare sotto la superficie delle cose, muove oltre l’apparenza. Nella Bàsura, aprendo bene le orecchie, si può cogliere questa chiamata alla profondità. È il sacro imperativo della Dea non più eludibile.
La voce della Dea riafferma, se mai ve ne fosse bisogno, la vocazione antica, primigenia, depositata nel cuore umano: esplorare, fare luce, trascendere il limite. Del fatto per il sentimento, del visibile per l’invisibile, del quotidiano per l’assoluto. Affrontare la discesa agli inferi dell’animo, per poi uscire “a riveder le stelle”, è la sola strategia di sopravvivenza per evolvere come individui e come specie. Dal viaggio sotterraneo emergono nuove parole, nuove storie, nuovi amici. Mondi diversi, passati e presenti, fondono in un presente primordiale che le forme geologiche riverberano, restituendo doni inaspettati. Laggiù, nella Bàsura, chi sa porsi in ascolto troverà un ponte tra dimensioni estranee l’una all’altra, eppure vicinissime. Laggiù prendono forma intuizioni informi, i silenzi cesellano pazienti il ventre sempiterno della Dea. Così ho sentito o sognato osservando le sue carni, avanzando tra le ombre. Questo è stato, e ora è raccontato.