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AUTUNNO. LA SMANIA D’AGIRE

Strano davvero, in questa stagione dove paion le cose là fuori cedere il passo, sentir dentro la voglia di fare, resistere, tentare: sarà la memoria di qualcosa d’antico, non so. E Ada e la sua volontà, la sua forza, la smania d’agire e mutare incarna per me quest’autunno. Ancora una volta, grazie a Passaggi e Sconfini per avermi offerto il pretesto d’indagare che sento e di scriverne.

Ti chiamava Didì.

Didì eri per lui che t’insegnò tante cose e ti strapparono via: io ti conosco per due fotografie o tre— sguardo fiero, sorriso vivace—e per le parole, le tue idee così belle, i tuoi libri. Una donna tenace, robusta, col volto di contadina e la grazia di chi sa gioire nonostante il mondo sia quello che è. Ada, lo sai, lo sai che ti amo a mia volta, anche se non oso chiamarti come faceva il tuo Piero. Non l’ho mai detto a nessuno: amo il tuo coraggio, la tempra, la speranza con cui ci hai condotti oltre la notte.

Ada Gobetti a Meana

È tutto cambiato, ma la luce è la stessa. In giornate così, che la foschia sfuma le forme, il sole è dorato e il caldo va e viene giocando coi nostri sudori, coi nostri vestiti, sembra impossibile si trovi la forza di darsi da fare. Scema l’ebrezza d’estate, cadon le voglie assieme alle foglie. Eppure, laddove la terra si cheta e tutto rallenta preparandosi al freddo, uomini e donne si destano, si mettono in moto: nuove imprese, nuovi percorsi, tanti progetti. È un po’ un capodanno, settembre. Sarà il riposo estivo a produrre impazienza, oppure il ricordo degli anni di scuola, o forse è una memoria più antica, di vendemmie e di feste che d’autunno ci muove e dà la forza di fare, sognare, di metterci all’opera. Sta di fatto che c’è tanta energia ed è tutta da spendere, malgrado la notte si faccia più densa, malgrado la terra si smarchi dal cielo.

In questi tempi di quiete e di futili ansie, io penso al settembre che apre il diario, alla sfilata nera di auto per le vie di Torino. Così finiva l’estate animata dalla speranza e dai sogni, si spezzava il miraggio di un futuro migliore e arrivava “qualcosa che ci avrebbe ben altrimenti e più profondamente impegnati”. 1 Era il 10 del mese; bastarono pochi giorni, una manciata di ore, perché tornasse l’indifferenza di sempre: “Allo smarrimento incredulo, alla ribellione irosa, stava ora succedendo, nei più, la rassegnata stanchezza indomita del popolo italiano. S’eran sopportati i bombardamenti, gl’incendi, la carestia; si sarebbe sopportata anche l’occupazione”. 2 Foglie di platano piovigginavano sulle mitragliatrici tedesche conficcate come croci davanti a Porta Nuova.

A guardar oggi, trovo nel languido incedere dei pomeriggi in città un invito alla meditazione; pur c’è nell’aria, non lo nego, qualcosa di più: odore di frutta, di funghi, l’odore segreto di ciò che fermenta e serpeggia, che inebria ed inneggia alla vita. È una vita diversa a dominare l’autunno, meno vistosa ma affatto modesta: a prender possesso del mondo sono forze soggiogate il resto dell’anno dai trionfi del sole, spiriti del silenzio e del segreto che non temono il buio, eredi di un mondo perduto in cui la luce era un lusso, che ispirano chi sa ascoltare a farsi strada nell’ombra. Non essendo dei più, Ada, tu ascoltasti: “Bisognava scomparire, dividersi, pur tenendosi segretamente in contatto”. 3 La “pena insostenibile” presto si tradusse in rancore, in smania d’agire, perché vivevano in te parole preziose: resistenza, volontà, libertà, giustizia.

Odori e ombre, a Meana, sull’inverso nodoso e fecondo della valle, riempivano l’aria e la terra. Fu come ritrovare“un dimenticato paradiso” ove farsi volpi e poi lupi e ascoltare il vangelo del sottobosco.“Qui la dissoluzione non era ancor giunta. Tra i castagni dorati dal tramonto, rientravano i carri, carichi di fieno; da ogni casa si levava nel cielo il fumo del focolare. S’udivan giochi di bimbi, gridar d’animali. Come se tutto il mondo fosse in pace”.4

Passeggiate con Benedetto Croce a Meana

Dove una volta trascorrevi le estati a discorrer con Croce di politica e poesia, la pace venne presto a mancare, come tante altre cose; si stava davvero in quegli anni come sugli alberi le foglie, ma dalle foglie cadute sorgeva e continuava a risorgere quel profumo di sesso, di vita, che nutriva la brama di vincere. Strano a dirsi di questa stagione infestata di crisantemi e di nebbie: non c’è fine alla vita, cambia solo di forma, si spande e dilaga; anche quando sembra ritrarsi, la vita crea finché non desistono orrore e dolore, angoscia e sospiri. E nonostante i rastrellamenti, le rappresaglie, la ferocia, “tenaci e pazienti come formiche, gli abitanti incominciavano a ricostruire: qui una porta, là una trave del tetto. Tutti lavoravano, anche i bambini. E si sentiva che, anche se apparentemente distrutta, la borgata non era morta e non voleva morire”.5

Bisogna tentare, fallire, ritentare fino a spuntarla, fino a vincere. Tu Ada, testarda com’eri, avresti preso a calci tutti noi tronfi pingui e pavidi uomini. Tu che muovevi “uno sciame di ragazze munito di biciclette”, 6 tu che aspettavi tuo figlio sull’uscio e poi lo seguisti sulle cime, sentivi sotto le foglie torcersi i muschi, viaggiare spore e sussurri, un respiro leggero, un profumo. Fiuto anche io, mi metto in ascolto, setaccio la terra e racconto. Contro tutto ciò che dicono, Ada, io sono con te, con Piero, i compagni caduti, gli amici. Voi siete il mio autunno, il coraggio che cerco. Lo scrivesti di Braccini, e voglio dirlo un giorno di me: “È un uomo nuovo che ha capito il significato dell’ora in cui vive e si è buttato nella battaglia con un tesoro intatto di coraggio e di energia”. 7

Non c’è foglia caduta, Ada, in cui non sia il tuo ricordo.


  1. Ada Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, Torino 1975, p. 19.
  2. Ivi, p. 26.
  3. Ivi, p. 22.
  4. Ivi, p. 29.
  5. Ivi, p. 202.
  6. Ivi, p. 351.
  7. Ivi, p. 123-24.