
FENICE
Il cuore non si innalza come si alza un corpo. Per alzare un corpo, basta cambiargli posto; per alzare il cuore, basta cambiare la volontà.
SANT’AGOSTINO
In chiesa io non penso. Nella piccola pieve come in cattedrale, spazio e silenzio abbondano a tal punto che i pensieri vagano spaesati, ronzano, si perdono. Tra le colonne come tra gli alberi i sensi sono desti, la mente vuota. Osservo la penombra e il sorger della luce, la luce che guizza qui e là come un uccello. In questi ventri scuri e freddi, in questi leviatani silenziosi, una fenice danza leggera. Luce brilla sulle ogive, luce filtra dai cristalli variopinti, luce ruota sui rosoni, luce siede sulle panche.
Viene in mente il poeta Guido Cavalcanti descritto da Boccaccio e ripreso da Italo Calvino in un passaggio delle sue Lezioni americane. Nel Decameron Cavalcanti è presentato come un austero filosofo che passeggia tra i sepolcri davanti a una chiesa quando, disturbato da una brigata chiassosa di giovinastri a cavallo, “posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò.” 1
Calvino sceglie “l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo” come immagine propizia per il nuovo millennio: questi anni, ora, qui. “La sua gravità”, dice, “contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte”. La gran luce e il farsi spazio della luce attraverso il ruminare di parole che mi tormenta e mai s’arresta, è leggerezza.
La cerco, la inseguo sulla volta, col naso per aria. Calvino, grande maestro di stile aereo e semplice, dà del pesantone addirittura a Dante ed ai suoi versi. “Come di neve in alpe sanza vento” 2, diretta emanazione del cavalcantiano “e bianca neve scender senza venti” 3, evoca puntualmente un luogo, l’alpe, vastità petrosa più vasta delle chiese, ed evocandola conferisce peso alla neve bianca e senza peso di Cavalcanti, la quale scende, invece, in “un’atmosfera di sospesa astrazione”.
E qui mi chiedo: come raggiungere la leggerezza? È possibile astrarsi e farsi neve, e farsi luce? C’è un modo per scarnificare il peso, ridurre tutto all’essenziale e saltare il muro, partendosene da chi giace avvinghiato alla sua terra e alle sue ombre, rancoroso e superbo, incapace perché troppo pigro, o troppo pavido, di spezzare la pietra attorno al cuore? Posso farlo io? E chi è con me? Chi entra con la luce, chi brilla sulle ogive, chi filtra dai cristalli, chi ruota sui rosoni, chi siede sulle panche?
Le fenici cercano riparo nelle chiese per scampare al mondo denso, greve e luminoso. Allora, prima di uscire di nuovo nel quotidiano pusillanime, in quell’eccesso di luce e di chiasso e di giudizi—un pensiero dopo l’altro, un messaggio dopo l’altro, un post dopo l’altro, un ricordo o una speranza dopo l’altra, cosa ho fatto o non sono riuscito a fare o avrei dovuto fare ma non ho fatto!—io respiro, rallento. Sento i versi cesellati di sublime leggerezza. Sento la danza della luce. Sento.
È forse vero che la leggerezza la si sceglie, non è la vita ad elargirla. È un atto di volontà: osservare e scoprire la quiete in questo istante. Uno dice che è difficile restar mesti quando la bellezza è così tanta; di contro, l’altro obietta che la bellezza non la vede. La scelta è dentro l’occhio: si può prestare attenzione a ciò che duole, ossia alla voce della mente, oppure soffermarsi sul respiro. Come la luce, il respiro danza e s’accontenta di danzare, non ha bisogno di parole. È il ricordo della fenice addormentata dentro il cuore.