
VESUVIO. CRONACA DI UN VIAGGIO NAPOLETANO
IL CRATERE
La donna scende l’erta del Gran Cono sciabattando, i sandali affondano a ogni passo. Tiene il telefono alto davanti al viso, come uno specchio, e ci guarda fisso dentro: “Eccoci in diretta!” dice con un accento partenopeo raddrizzato da un corsettino di dizione. Trattengo la risata. Inciampa in una pomice, quasi rovinando sul sentiero. Subito corregge passo e tono fatti incerti e dirotta l’attenzione del suo pubblico digitale rimarcando la bellezza del paesaggio: “Guardate che spettacolo! Siamo a 1167 metri d’altezza e vi do una notizia meravigliosa: oggi pomeriggio avremo un ospite eccezionale a parlare di un tema importantissimo: il tempo!”
Tante iperbole stucchevoli, e per cosa? Al posto di godere il tempo dato dalla valle ritagliata in tempi andati e dalla lava vomitata dalle viscere del Somma, questa scende il monte rimirando la sua faccia, neanche fosse più piacente del vasto volto che ha di fronte. Sicura di sapere che fare del tempo, bella mia? Importa poco chi sei tu, e chi il tuo ospite. Non sei sola. Ci son quelli che fanno selfie sulla bocca del vulcano, quelli che chiamano l’amico, l’amante, la madre, strillando d’emozione e meraviglia. Niente di male, anzi, è bene si stupiscano, tuttavia sono dell’idea che al Vesuvio uno sale zitto zitto, a testa bassa. Sarà che io sto sempre a ragionare su ogni cosa, però il sonno del Vesuvio, il suo silenzio… Dormendo è più eloquente di tante mie parole, tue parole, ogni parola detta.
Sono tante le parole, troppe quelle e troppi i volti di chi sale senza dignità o rispetto. Salgono come al centro commerciale: seminudi, allo sbaraglio, tronfi e sciocchi. Mostra il muscolo quell’altro, quasi fosse lui più forte del vulcano. Non più parole reverenti e labbra tremanti giungono in preghiera, e neanche segni della croce: l’uomo disprezza ciò che tace, figuriamoci questi poveri sassi. Manca l’immaginazione, dono proprio di chi vedeva un tempo, dei cantori di ginestre, dei viaggiatori attenti, dei poeti desti ai sensi che scorgevano nel fuoco l’ira ardente di Lucifero per la bontà e la bellezza delle cose a lui sottratte, contro le quali riversava l’inferno per capriccio. È presto detto: quassù non si giunge a spalle dritte, ma guardinghi, penitenti, sgranando rosari.
Nuova luce appare, luce sinistra, che agghiaccia il cuore, e mette spavento. È quella delle fiamme del Vesuvio. Di giorno coperte dalla luce del sole poco si scorgono. Ma come si oscura la notte, colpiscono l’occhio tre immani e paurosi fiumi di fuoco, che a modo di serpenti si strisciano pei fianchi del monte, e sembrano rintanarsi in esso, quasi che non si venuto ancora il momento di riversarsi alla devastazione ed allo sterminio. (Giulia di Barolo)
Il fatal monte addormentato non sanziona più che tanto, non può dirsi più “sterminatore”: ad agosto procura vesciche ai piedi e agli scemi tuttalpiù un’insolazione. Spente le fiamme dopo l’ultima eruzione assieme ai fuochi della guerra, spento anche il terrore per il demonio e dio, tutto tace. In ottant’anni, neanche un soffio, e perciò sul Vesevo hanno montato delle corde, dei gradini e delle capanne di ristoro con ricordi da portare ai parenti: forme e teschi ritagliati in lave aliene, islandesi e guatemalteche, che rifilano come fossero locali. Con fastidio guardo e passo, colgo pietre sulla costa, pomici grezze. Tra i grumi lapilli e ceneri si annidano i pirosseni, minuti cristalli verde-nerastri ruggiti dalla gola liscia e lustra del cratere, larga 580 metri e profonda 300. In quella bocca a cui s’arpionano disperate delle erbacce, si lanciano in picchiata uccelli e farfalle. Un macigno con un crepitio si stacca e vi si getta, schiantandosi sul fondo. Dicono il Vesuvio abbia le forme di una donna sdraiata: a me pare una bestia che solo finge di dormire, e studia il salto.
IL GOLFO
Tuttavia, quassù, qualcosa sfugge. Il Golfo da tutti immortalato, la piana brulicante di Napoli, senza il tassello irreplicabile del vulcano paiono mutilate, un cantuccio mediterraneo come un altro, e perdon corpo. Napoli è questo stesso corpo: tufaceo, caveoso, imprevedibile, violento. Non esiste Napoli senza il Vesuvio, e nemmeno i napoletani. Suoni e musica, odori e afrori, immagini e fantasmi a Napoli sanno di zolfo e di salsedine. La gente strilla, guarda in faccia, ti cerca e ti parla, è gente orgogliosa della propria identità marinara e sulfurea al contempo. Erri De Luca scrive che il senso del sacro dei napoletani, l’origine del loro “animismo effervescente, tropicale” (41), non è piovuto dal cielo, osservando eclissi e costellazioni, al contrario: è “scaturito dal sottosuolo […], fiutando il gas dei campi ardenti, flegrei, ascoltando il ringhio della terra scossa, guardando la discesa a fiumi del fuoco viscerale del vulcano” (70). Lui è la bussola che orienta l’agire di un popolo tradito a più riprese dai padroni della storia e redento da se stesso, ad ogni invasione, ad ogni voltafaccia.*
Ho idea che il Vesuvio per i napoletani non sia tanto il baratro che qui vedo, imbrigliato da cartellonistica e sentieri, sala studio per tecnici e scienziati, attrazione per turisti come un gioco in delfinario, no. Il Vesuvio non è così tangibile, né così silente. La quiescienza del cratere ha distolto l’attenzione dal suo volto, l’ha respinto sullo sfondo come una presenza inquieta che agisce a un livello più subconscio. In città il Vesuvio si fa strada nel cuore di chi osserva come un’ombra e come un simbolo, come un comandamento che sussurra alla coscienza. Va visto da laggiù, più che da qui. Il Vesuvio qui dormiente, a Napoli è destissimo. Se qui è un vulcano, a Napoli è un dio. Il bagno che fai a Riccione o a Portofino, a Posillipo lo fai tra i piedi nel Vesuvio; se a Torino intuisci il Monviso all’orizzonte, a Mergellina gli occhi del vulcano ti spogliano all’improvviso. Il Vesuvio insegna ad approfittare di ogni istante, e ricorda che ogni istante, in un istante, torna niente. A me pare i napoletani dilatino i loro istanti all’infinito con quella pacienza che De Luca dice sia sintesi di patimento e “darsi pace”. In una polveriera, aggiunge, aver fretta è una sorta di follia.

Io scorgo però qualcos’altro, e ci rifletto qui, tra queste nuvole, mentre la città si muove lontana sotto di me. Ricordo dei ragazzini a Fuorigrotta, avranno avuto neanche 14 anni. Scatta il rosso e quelli camminano come niente fosse, truci e a testa alta, sfidando le macchine e la sorte, rispondendo agli insulti con gli sputi e le minacce—Napoli è una città in cui puoi aver timore dei bambini. Penso ai conducenti senza cintura, ai motociclisti senza casco, alla vespista col piccolo tra le gambe, ai passeggini lanciati sulle strisce. Penso che a differenza di altre città tirate a lucido, Napoli sia una città che non nasconde il tempo: non l’incedere sgraziato della vecchiaia, né il degradare della bellezza in ignoranza, né la fralezza della vita né l’imputridire di ogni cosa. Napoli espone e celebra il suo corpo vecchio, sporco e storpio, i denti caduti, i seni cascanti, i testicoli secchi. Assiste alla sua continua morte e risorgenza con coraggio, guarda al tempo con la boria dei fanciulli e sembra quasi, nel suo sconsiderato arrischiarsi ad ogni incrocio, nel suo violare regole e buonsenso, farsi beffe del tempo e della morte con un fatalismo degno degli eroi. Che insomma il Vesuvio esploda o non esploda, qui si vive il tempo senza curarsi del tempo che passa e si esaurisce, poiché in effetti non accade: tutto nasce, prospera, stenta, crepa e ricomincia, persino sotto a un vulcano.
IL POETA
Quando vidi quei ragazzi andavo al Parco Vergiliano, volevo rendere omaggio alle ossa di Giacomo Leopardi. Trovai il cancello chiuso e mi bastò, perché l’affronto aveva un senso. Era uno dei tanti continuamente rifilati dalla città, alterni ai doni che elargisce, alle lezioni impartite. Tornai al lido da chi avevo lasciato e mi aspettava, e divideva con me il tempo a noi donato. Questo dovevo fare, secondo quel cancello. Il Vesuvio all’orizzonte forte si stagliava sulle anse e sulle squame di questa capitale tragica, sensuale, radiosa, fetente. Di tutto questo vivere e morire, di questo andare in cerca di se stessi e raccogliere ginestre poco resta adesso, meno che mai qui, mentre aspetto la navetta per rientrare a Napoli e ripartire per Torino: il Vesuvio è la mia ultima tappa. Non credo che avrò mai la schiena dritta a sufficienza per far miei luoghi come questi. Giacomo ci riuscì, e la sua schiena era ben più storta della mia, ma lui era un gigante. Gli bastò osservare, sentir propria una città viva e un orizzonte incerto, goderne e scriverne. Questo suggeriscono le sue poesie, e anche il cancello chiuso sul suo cuore e le sue ossa: vai la fuori, vivi!
So già cos’accadrà. Avrò una riga o due per ogni volto e ogni nome, ogni gesto e ogni parola. Qualche termine dialettale ho dovuto appuntarlo, assieme alla ricetta per far gioia del profumo dei limoni. Mi mancherà questa città, mi mancherà il suo popolo, il suo caos, la sua boria, i suoi Borbone. Cercherò il Vesuvio ancora e ancora, come lo cerco da sempre, e mi tuonerà nel cuore. Ad ogni incontro, nuovi ricordi si aggiungono ai lontani—c’è persino un primo bacio e un primo amore—e mi chiedo come Napoli possa ospitare tutti noi, tutti i nostri ricordi, e trovare ancora spazio. Come si possa chiederle così tanto, e ricevere tutto dando poco o niente. Intanto io sarò tornato alle Alpi e “purezza” sarà la parola che sussurreranno, gelando i caldi venti del golfo. Sarà come vedere un altro mare e rivederlo, un alto cavallone, un oceano verticale; vedrò sciogliersi sulle sue petrose sponde tesori e scorie dell’umana civiltà che arrampica il Vesuvio e che Napoli accoglie con tutti i trionfi e le monnezze, tutte quelle cose che le altezze sollevano, perdonano e redimono, e che ogni volta torno qui per ricordare.
* Erri De Luca, Napòlide, Edizioni Libreria Dante & Descartes, Napoli, 2017.