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OCCHI D’ORO

Diceva Dante “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, intendendo con questo che l’amore non può che esser corrisposto, che chi è amato è costretto dalle leggi dell’Amore a riamare a sua volta. Il verso è citato dalle coppie felici, contratto a mo’ di hashtag – #amorchanulloamato – viaggia per la rete con le ginocchia spezzate. I cinici, invece, spengono il sogno alzando il sopracciglio, rimproverano a Dante la svista, e s’asciugano una lacrima.

Ho avuto la fortuna di esser amato nelle molteplici declinazioni d’amore, dalla stima all’amicizia, dal flirt all’intimità, dal sesso all’amore. La reciprocità, ciascuna delle volte, era imperativa: ho sempre cercato una corrispondenza, per non sottrarre o farmi sottrarre il diritto all’amore, qualsiasi esso fosse. Certo, sono capitati dei baci di cortesia, ma mai un amore di cortesia, meno che mai per venire incontro ai desideri della controparte. In tutta risposta, mi sono sentito dire più volte che “non mi lascio andare”.

Il ricorrere negli anni di questa osservazione non aveva mai mosso alcun sentimento: non ti stimo, non mi piaci, non ti voglio. Potevo replicare—e nella mia mente replicavo—con una frase che mi fu detta una sera: “Deve valerne la pena”. L’epitaffio era sempre pronto. Non sono solo: ci sono cuori nel mondo altrettanto raminghi, e inquieti attorno al motivo di tanta solitudine, dell’incapacità di sentire sotto pelle la legge d’amore. Che possono farci?    

Mi è stato dato del vigliacco. Difficile darsi pace, e facile, estremamente facile, per non dar dispiacere a nessuno, assecondare il sibilo nella mente: “Ama! Se non ami sei inadeguato, malato, perdi tempo, sei morto!”. Chiedi, per amore, d’essere amato per quello che sei, e arrivi a pensare sia una colpa. È tutto sbagliato. Sono tutto sbagliato. La tua è la colpa peggiore: la colpa di non saper amare.

Quando sei stufo di scappare, stufo di sentirti sbagliato perché non ti lasci andare, stufo di queste atroci carenze, ti metti d’impegno e ci provi: “Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli. Ami allora non come è tua indole amare, piuttosto come l’altro ama. Qui non si parla d’invenzione d’amore, perché Dante aveva ragione: l’amore è sempre reciproco. Solo, risuona su frequenze diverse, non c’è sincronia ma rumore, uno scambio in lingue stonate, occorre uno sforzo di traduzione.

L’amore “al cor gentil ratto s’apprende”, e si declina in quello sforzo. Il quale mai dev’essere intenso, bensì una quiete accesa. Il rischio, altrimenti, è di spegnersi, di smarrirsi, di lasciarsi addomesticare. Una delle pagine più discutibili mai scritte è la preghiera della volpe al piccolo principe: “Se ti va… addomesticami!” Il principe risponde da principe: “Non ho molto tempo. Ho amici da conoscere e molte cose da vedere”. Perché mai, poi, perder tempo ad addomesticare qualcuno? Perché “non si conoscono che le cose che si addomesticano”, risponde la volpe.

Ora possiamo lanciarci in una verbosa critica all’antropocentrismo intrinseco a questo brano, oppure soffermarci su due punti. Il primo: perché il piccolo principe, anziché confezionare una museruola alla volpe, non infila dei buoni scarponi e la segue per i boschi per apprendere quel che lei, più grande, più saggia, ha da insegnargli? Che ne è del sapere della volpe, un sapere antico come le montagne: dov’è finita la candida umiltà del piccolo principe?

Secondo aspetto, e torniamo al discorso precedente: il linguaggio. Dice la volpe che per addomesticare qualcuno bisogna essere molto pazienti, sedersi sull’erba e non dire nulla perché “il linguaggio è una fonte di malintesi. Ma, ogni volta, potrai sederti un po’ più vicino”. Io con i mici in giardino tento questa approccio, ma aggiungo dell’altro. Resto in silenzio, immobile, e provo a scimmiottare il loro, di linguaggio. Seguo lo sguardo di Leone, lui segue il mio, così comunichiamo.

Il linguaggio dei cuori è un linguaggio sincero, condiviso, un equilibrio tra silenzi e parole. Non ci sono domande scomode, non ci sono segreti da mantenere. L’essenziale, allora, si fa visibile. Perciò ritengo ci siano volpi migliori, e storie migliori, preferibili a “Il piccolo principe”. La prima è Sensei, il signore della montagna che, in Wolf Children, insegna al timido Ame tutto ciò che conosce. Altroché lasciarsi addomesticare, altroché svilire o ignorare il sapere della volpe! È il ragazzo che chiede di apprendere, a lui tocca destare l’animalità sepolta: inselvatichire.

L’altra volpe torna e ritorna nei sogni e nei prati. È la volpe nella quale m’identifico dacché scorsi i suoi occhi d’oro scrutarmi e risplendere da un volto sapiente, splendere fin dentro al mio cuore. La vita di questa volpe non è “monotona”, lei non si “annoia” come la volpe di de Saint-Exupéry. Non ha intenzione di farsi umana, non dice “Se tu mi addomestichi, nella mia vita ci sarà un sole”. Vuole correre, cacciare, scoprire. Il sole arde nel suo sguardo, una luce selvaggia.