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CIÒ CHE MUORE

Ciò che muore non ha spazio in questo mondo. L’aveva un tempo, quando i morti nascevano nella stanza accanto e venivano sepolti sotto le panche delle chiese. Ma in un mondo refrattario alla caducità e all’impermanenza, in un mondo che ha sospinto i morti ai margini, pure le piccole morti van cacciate. Ciò che muore non ha spazio. Lo spazio è saccheggiato dal clamore e dal piacere.

Soffermarsi sul dolore, sprofondare nel silenzio nato in fondo al petto, disperare? Perché? Meglio correre in cerca di rumore, di cose da fare, meglio sistemare protesi di baci e gioia acerba dove prima era l’amore. Il lutto viene avvolto in sudari di speranza: non poteva essere altrimenti, non eravamo pronti, passerà. Può darsi, ma distrarmi a che mi serve? Qual è il mio presente?

Il presente non è un punto immacolato, è la convergenza del passato e del futuro nello spazio, è la quarta dimensione. Questo istante è una cima da cui due chine si dipartono: le azioni già compiute, e ogni azione che verrà. Mi soffermo sulla cima, riconosco che è dolente: vista scura, vento forte. Ma non si può star nel presente unicamente quando è dolce. Va accettato tutto quanto. Mi arrendo.

Da quassù rifletto, appunto, scrivo capitoli per evitare di trovarmi in capitoli identici più avanti. È questione di carattere; io trattengo, trasporto, lascio andare. Dicono che s’impara sbagliando, ma è anche vero che non molti contemplano l’errore. Dicono che la lingua batte dove il dente duole. Dicono “Voglio andare piano, me la voglio godere” solo quando la fortuna gli sorride.

Io dico che prima di librarsi nelle iridi celesti bisogna lasciar passare il temporale, danzare nella pioggia, regalare a lei le lacrime e alle chiocciole la fretta. Sei mesi, sei anni, una vita. Dico che pigiato e annichilito, il carbone si fa gemma. Dico date tempo a ciò che muore, non usate le cesoie, non strappate via le foglie. Mia nonnina dice: “Luca, la vita è una rosa”. Nel suo giardino ciò che muore aveva spazio, appassivano le rose.