
JONATHAN FRANZEN. UN FIAMMIFERO NEL BECCO
Qualche tempo fa mi è stato proposto di recensire per la rivista .eco la raccolta di saggi dello statunitense Jonathan Franzen The End of the End of the Earth: Essays (FSG, 2018), un libro che tra critica letteraria, digressioni autobiografiche, meditazioni ambientaliste e pillole d’etologia tenta di sciogliere il garbuglio che confonde le storie umane e minaccia quelle non umane. Distratti come siamo dalle fosforescenze di una realtà “aumentata” fatichiamo a cogliere l’urgenza del cambio di rotta imposto dai cambiamenti climatici. Ma se è vero che la narrazione è l’habitat (oltre che l’habitus) della specie umana, letture e riletture a ritmo lento, quasi “a passo di gambero”, si pongono quale laboratorio di ipotesi, utopie e mondi possibili. L’ennesima conferma è arrivata vedendo lo splendido spettacolo teatrale per la regia di Anna Redi La conferenza degli uccelli. Poetico e vibrante, il lavoro di Redi attinge al racconto teatrale di Jean-Claude Carrière ispirato al poema del mistico persiano Farīd al-Dīn ʿAṭṭār trascinando in una dimensione onirica fuori dal tempo. L’urgenza di questo tempo mi ha portato invece a trascinare in un passo a due ʿAṭṭār e Franzen per suggerire il valore ecologico del mito, sottolineare la potenza di simboli e storie e recuperare il senso del sacro.
MONDI PARALLELI, MONDI IN FIAMME
Settimo episodio, sei inchiodato allo schermo. Sul climax della seconda stagione di Westworld parteggi nettamente per gli “ospiti”, robot con sembianze umane che hanno gradualmente abiurato alla fasulla esistenza stile Vecchio West imposta dagli umani. Gli ospiti, infatti, sono concepiti come intrattenimento per i facoltosi visitatori del parco divertimenti, una caricatura degli Stati Uniti di metà Ottocento dove tutto è concesso, finanche le più atroci violenze. Nel corso della prima stagione, per via di qualche anomalia del sistema operativo, gli androidi hanno cominciano a dimostrarsi imprevedibili, poi incontrollabili, infine a restituire i massacri.
Sei lì per aprire il secondo pacchetto di patatine, ed ecco apparire il redivivo Robert Ford appoggiato a una parete lucida, scarlatta, che riflette innaturalmente il suo profilo per merito di un bizzarro gioco di specchi. In completo nero, la catenella dell’orologio in bella mostra sul panciotto, Anthony Hopkins è impeccabile nel ruolo del carismatico creatore del parco. Le note del secondo movimento della Sinfonia n. 7 di Beethoven aprono il monologo, accompagnate dal suono ovattato degli spari e dai lampi di un eccidio: “Quando la Biblioteca di Alessandria bruciò, i primi 10.000 anni di storie furono ridotti in cenere. Quelle storie, tuttavia, non perirono affatto; divennero una nuova storia: la storia del fuoco stesso. Del bisogno dell’uomo di prendere una cosa bella e… accendere il fiammifero.”
Nell’autunno 2017 fu appunto un fiammifero, per così dire, a ferire un’altra “cosa bella”: la Valle di Susa. Dopo cinque mesi di siccità, il paesaggio delle Alpi immortalato nelle fotografie satellitari pareva più simile agli scorci sahariani dei Monti Atlante che ai quadretti arcadici associati alle montagne piemontesi. Una scintilla bastò, e i giorni dal 22 al 29 ottobre vengono ricordati come “giorni di fuoco”. Forti raffiche di föhn trascinarono i roghi interessando SIC e riserve naturali, gli Orridi e le pendici del Rocciamelone. Le Batterie Paradiso, poco sopra i 1.200 metri, e la pineta del Pampalù vennero divorate dalle fiamme che, a tratti, raggiunsero i 70 metri d’altezza. In una settimana andarono a fuoco circa 3.000 ettari di superficie, dai 400 metri a ridosso delle borgate di Mompantero fino a 2.600 metri.

Alle immagini del Rocciamelone ardente come una pira funebre si aggiunsero i tramonti cremisi su tutto il Nord Italia, nubi lenticolari che sembravano dipinte da Edvard Munch ed erano causate dal materiale in alta quota originato dalla combustione dei boschi piemontesi. Le centraline dell’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale del Piemonte registrarono nella città di Torino, a 40 chilometri di distanza, concentrazioni di 354 microgrammi al metro cubo di Pm10, sette volte il valore limite fissato dall’Organizzazione mondiale della Sanità. In un decalogo emanato dall’ASL si raccomandava alla popolazione di uscire solo se necessario e di tener chiuse le finestre.
Le perdite subite dalla fauna locale non riguardarono tanto i grandi animali—caprioli, cervi, lupi e cinghiali dovevano essersi allontanati prima che l’incendio li colpisse; molti uccelli, in autunno, erano già migrati verso sud. La tragedia, che rasentava l’estinzione, fu a carico di tutta la componente del sottosuolo: collemboli, lombrichi, rane, rospi, serpenti, tritoni e grandissima parte degli insetti.
L’autunno scorso, il 24 ottobre, un disastro simile ha interessato l’Agordino. Un incendio dall’estensione stimabile in almeno 600-700 ettari, causato probabilmente da un albero caduto sui fili dell’alta tensione, si è scatenato in una giornata di caldo record dovuto a un episodio di föhn. Nelle valli dolomitiche, e nel primo pomeriggio anche in quelle prealpine del Vicentino, sono stati registrati valori termici eccezionalmente alti: a Feltre si è raggiunta una massima di 30.5°C, a Belluno 29.2°C.[4] Il 26 ottobre, una forte perturbazione di origine atlantica ha poi portato sulla regione persistenti piogge, congiunte al vento caldo di scirocco che, soffiando tra i 100 e i 200 chilometri orari per diverse ore, nella Val di Fiemme ha provocato lo schianto di 2 milioni di metri cubi di alberi, l’equivalente di 10.000 campi da calcio. Nei giorni seguenti, i droni che hanno sorvolato le foreste esploravano una montagna muta e sfigurata, irriconoscibile.




LA REALTÀ NON È REALE
Gli episodi che hanno riguardato la Penisola—senza citare il più letale incendio della storia d’America, il rogo di 15 giorni consecutivi che ha completamente distrutto la cittadina di Paradise devastando 620 chilometri quadrati nel nord della California e uccidendo 85 persone—allarmano per la rapidità, la violenza e la macroscopica entità degli effetti, tale da esimerci, apparentemente, dall’assumere qualsiasi responsabilità rispetto al loro scatenarsi. A ben guardare, però, le cose non stanno così. Secondo l’ultimo bollettino sui cambiamenti climatici diffuso da Copernicus, il programma europeo di osservazione della Terra, negli ultimi 5 anni la temperatura media è stata di 1,1°C superiore alla media preindustriale. Le catastrofi sono la sintomatologia di un male più profondo.
Immersi in un caleidoscopio di rappresentazioni della realtà—filtrata, “aumentata” e, in ogni caso, costantemente tradotta—, fatichiamo a cambiar passo. “Le persone in una bufera autentica ora esclamano che sembra in tutto e per tutto la bufera di neve in un film”, scrive Jonathan Franzen nel recente The End of the End of the Earth: Essays: “Non solo la cosa reale non è reale, ma ti colpisce come copia di una copia” (184).* Proprio come in Westworld, dove i visitatori umani, anche quando la finzione comincia a trucidare, faticano a credere che il loro mondo, interpretato e riordinato secondo categorie stabili e sicure, stia finendo sottosopra.
Questo perché il cambiamento climatico è diverso da qualsiasi altro problema che il mondo abbia mai affrontato, sostiene Franzen. “Per prima cosa, confonde profondamente il cervello umano, che si è evoluto per concentrarsi sul presente, non sul futuro remoto, e su movimenti prontamente percettibili, non su sviluppi lenti e probabilistici” (51). Il cambiamento climatico “condivide molte caratteristiche col sistema economico che lo sta accelerando. Come il capitalismo, è transnazionale, imprevedibilmente dirompente, si autoalimenta ed è ineluttabile. Sfida la resistenza individuale, crea grandi vincitori e grandi perdenti, e tende alla monocultura globale—l’estinzione della differenza a livello di specie, una monocoltura dell’agenda a livello istituzionale” (54). Nei millimetri di mare innalzato dal riscaldamento globale affonda la grande speranza dell’Illuminismo, per il quale “la razionalità umana ci permetterebbe di trascendere i nostri limiti evolutivi” (51).
AIUTARE CIÒ CHE AMI
Muovendosi tra critica letteraria, digressioni autobiografiche, meditazioni ambientaliste e pillole d’etologia, senza cader mai nella banalità o appesantire il testo con pedanterie accademiche, Franzen palleggia tra umano e non umano, natura e cultura, affidando alle parole dello storyteller-saggista i moti del cuore del naturalista-birdwatcher. Ed esercitando sempre “l’unico vantaggio di essere un pessimista deprimente, che è la propensione a ridere nei momenti bui” (11). Uno stratagemma per tracciare parallelismi tra ambientalismo e puritanesimo, sistemi di credenza “infestati dal sentimento che il semplice essere umani significa essere colpevoli. Nel caso dell’ambientalismo, la sensazione è fondata su fatti scientifici” (44). Punzecchia, Franzen, la sinistra americana che ha visto nel cambiamento climatico “l’ultimo forte argomento in favore del collettivismo” (22), e non tralascia le filiazioni escatologiche di un simile pensiero: quel “domani infernalmente surriscaldato”, quel giorno del giudizio nel quale, “se non ci pentiremo e correggeremo i nostri comportamenti, saremo tutti peccatori in mano a una Terra furiosa” (44). Obietta, non senza un certo candore, che “l’amore è un movente migliore della colpa” (45).




Invece d’investire energie e risorse in progetti a lungo termine per rallentare il cambiamento climatico, dovremmo preoccuparci di preservare gli habitat e le specie esistenti, seguendo l’esempio del Costa Rica, dove le comunità vengono coinvolte per costruire un senso di local ownership. Proprio “trascorrendo una settimana nella foresta da bambino, esaminando crisalidi e escrementi di ocelot, potresti da adulto vedere la foresta come qualcosa di differente da una mera risorsa economica” (62). I cosiddetti “paratassonomisti” costaricani, pur privi di laurea, dopo un periodo di formazione intensiva sono in grado di fare un autentico lavoro scientifico. Perlustrano la foresta tropicale, raccolgono campioni, costituiscono un supporto formidabile. “La biodiversità è un’astrazione, ma non lo sono centinaia di cassettini contenenti esemplari di tignola guanacastea spillati ed etichettati”, scrive Franzen (61). Non basta ridurre le emissioni di anidride carbonica; per cogliere la vulnerabilità del nostro ambiente l’approccio alla conservazione deve essere francescano: “Aiutare qualcosa che ami, qualcosa proprio di fronte a te, e vedere i risultati” (58). Così, forse, le scatole di fiammiferi rimarranno nei cassetti.
L’INVISIBILE
Sono soprattutto gli uccelli, “per molti aspetti più simili a noi di altri mammiferi” (36), ad avere la simpatia (greco συμπάθεια, sympatheia, “patire insieme”) di Jonathan Franzen. L’ùria comune, per esempio, e il suo particolare “esercizio di devozione”: i forti legami di coppia, la vita condivisa anche per trentacinque anni, l’annuale ritorno nello stesso piccolo territorio per allevare un pulcino scambiando i turni di incubazione (159).
Resta comunque l’alterità radicale degli uccelli a costituirne la bellezza e il valore: “Sono sempre in mezzo a noi ma mai con noi”, scrive l’autore; “sono gli altri dominatori del mondo prodotti dall’evoluzione” (40). La capacità di fare ciò che ci è precluso eccetto nei sogni, volare, è la dote che rende queste creature misteriose e affascinanti. Inafferrabili, a tratti invisibili, giacché sovente nidificano in luoghi remoti. “Se tu potessi vedere ogni uccello nel mondo, vedresti il mondo intero” (35): le traiettorie di volo degli uccelli avvolgono il pianeta in miliardi di filamenti, da albero ad albero e da continente a continente. Franzen cita il piovanello maggiore, una piccola specie costiera che compie annualmente andata e ritorno tra Terra del Fuoco e Artico canadese. Un individuo chiamato B95 ha volato più miglia di quelle che separano la Terra e la Luna: “Non c’è mai stato un tempo in cui il mondo sembrasse loro grande”, scrive l’autore (37). Eppure, gli uccelli vivono in tutto il mondo una situazione che Franzen definisce “atroce” (166).
Negli ultimi 60 anni, si stima che la popolazione complessiva di uccelli marini sia diminuita del 70%. Di circa 350 uccelli marini del mondo, una percentuale maggiore è indicata come minacciata o in pericolo rispetto ad altri gruppi. L’ecatombe è dovuta all’esaurimento delle fonti di cibo per via dei cambiamenti climatici e della pesca intensiva: “Almeno 400.000 uccelli marini vengono uccisi ogni anno dalle reti da posta” (161), di cui 100.000 albatros. “Le flotte della Cina e di Taiwan, che insieme rappresentano i due terzi dei pescherecci in alto mare, operano con scarsa o nessuna attenzione alla mortalità degli uccelli marini, e vendono il pescato a mercati per lo più indifferenti alla sostenibilità” (166). Cionondimeno, la minaccia principale per gli uccelli marini sono i predatori: gatti e topi introdotti dall’essere umano sulle isole frequentate per la riproduzione; isole remote, scogli impervi in cui le specie marine soggiornano per breve tempo, per poi trascorrere la maggior parte della vita altrove.
Fino a qualche tempo fa, “l’invisibilità è stata un vantaggio per gli uccelli marini, un mantello col quale schermarsi. Ma ora, mentre svaniscono dagli oceani, necessitano di protezione; ed è difficile preoccuparsi di animali che non puoi vedere” (158). L’universo degli uccelli marini, che comprende i due terzi del nostro pianeta, è per lo più invisibile. Quell’invisibilità che ci ha sedotti, la stessa che li ha difesi, ora li tradisce. “Se scomparissero”, si chiede Franzen, “quanti lo noterebbero?” (162).
Viene in mente la chiusa de Il verbo degli uccelli, poema scritto dal mistico e poeta persiano Farīd al-Dīn ʿAṭṭār nel 1177. Gli uccelli di tutto il mondo, raggiunta la meta del loro pellegrinaggio, il mitico Simurgh, allegoria di Dio, si smarriscono nella luce divina: “E gli uccelli si annullarono eternamente in lui: l’ombra si dissolse nel sole, e così sia. Finché gli uccelli procedevano lungo la via, avanzava con loro il mio racconto. Ma ora che sono giunti alla meta e di loro non è rimasta una sola piuma, necessariamente devo tacere. La guida e i viandanti sono svaniti nel nulla, trasformandosi nella via”.**




UN’ALTRA STORIA
Leggendo la storia di Jonathan Franzen, l’epilogo radioso di Farīd al-Dīn ʿAṭṭār si confonde coi tetri bagliori dell’olocausto evocato da Robert Ford: 10.000 anni di storie perduti nel fuoco, per una nuova genesi; l’estinzione degli uccelli marini confluirà nella più vasta, imperscrutabile storia del cambiamento climatico. Consegnare gli uccelli all’oblio “significa dimenticare di chi siamo figli” (39), scrive Franzen. “Le storie che raccontiamo del passato e che immaginiamo per il futuro sono costruzioni mentali di cui gli uccelli possono fare a meno” (40) perché vivono nell’immediato presente: tocca a noi fabbricare un epilogo diverso, recuperare e utilizzare l’ancestrale attività di significazione, la narrazione, per aprire dentro l’ambiente fisico un ambiente virtuale sano, una “biosfera aumentata” che si faccia nicchia ecologica per uno sviluppo gentile. Siamo noi a dover capovolgere il destino prima che le macchine ci soffochino nel loro fiato rovente, prima che gli uccelli, come i ghiacci, si dissolvano nella via.
Può darsi che non ce la faremo, e annegheremo nelle lacrime. Può darsi che la nostra specie sopravviva in attesa di un perdono che non arriverà. Può darsi, viceversa, che a perdurare siano le creature alate, e che un passero sorvolerà le città perdute con un fiammifero nel becco, re del nuovo mondo. Forse siamo ancora in tempo per evitare tanta solitudine. D’altronde è proprio Robert Ford a incalzare la sua nemesi Bernard affinché compia la scelta che risolverà le vicende di Westworld: “Il passaggio da un mondo all’altro”, dice, “richiede passi audaci”.
Ed è Jonathan Franzen a sigillare il suo The End of the End of the Earth con un epitaffio pieno di speranza: “Anche in un mondo di morte, continuano a nascere nuovi amori” (226).
* Tutte le citazioni sono tratte da J. Franzen, The End of the End of the Earth: Essays (New York, Farrar, Straus and Giroux, 2018).
** Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, Il verbo degli uccelli (Milano, Studio Editoriale, 1986), p. 207.