
ANGELO MORINO. 200 METRI DI LIBRI
pure io me ne sono andato
per non ritornare mai più
mi cercheranno
nelle notti di settembre
in un libro
e non mi troveranno
forse sarò
colui che nessuno può comprendere
ANGELO MORINO
LA CARAVELLA
Alla figura attraente, arruffata e ribelle del professore-poeta in jeans e giacca di velluto, tra le aule dell’Università fa da contrappeso il cattedratico di seta pettinato e profumato, tronfio dei carteggi con intellettuali di gran lunga superiori e meritevoli del seggio, se non fosse che son morti e sepolti. In entrambi i casi, per la matricola certi particolari sono indizio di un mentore potenziale o, viceversa, dell’ennesima maschera dell’Accademia. È facile quindi immaginare cosa significò per me, quindici anni fa, imbattermi in un uomo in completo accollato fatto come d’un solo giro di tessuto nero in piedi accanto alla cattedra, i capelli raccolti in una coda bassa. Angelo Morino mi suscitò una differente e disordinata intuizione, disegnando col suo corpo una forma inedita contro i cliché cui ero abituato, riassunta in seguito da uno dei versi suoi che lessi: “Sono leggeri e dolci/ I capelli d’ogni ragazzo del/ Mondo”.
Mentre raccontava assorto di conquistadores, serve e selve del Nuovo Mondo, noialtri frutti acerbi accatastati dietro ai banchi sembravamo maturare al sole della sua voce; perlomeno così mi pareva. Non lo ricordo sorridere, però gli occhi celesti fissavano i cieli liberi stagliati sulle storie. Conservo ancora un video di una lezione sulla Donna Marina, l’indiana che divenne traduttrice di Hernan Cortés attorno alla quale Morino ricostruì la saga della conquista del Messico. Non lo si vede se non per pochi istanti, ma se ne sente la voce, il pensiero danzante.
Un rapido censimento nella sua terra natale, la Val di Susa, rivelerebbe la triste verità: pochi ne hanno sentito parlare, pochissimi lo ricordano. Angelo Morino subisce il destino di tante gemme fiorite tra queste montagne, ignorate e rimosse dalla storia di comunità che, a conti fatti, conosce poco o nulla di se stessa ed è povera, su tutto, di gratitudine. Ma forse sbaglio. Forse è un’irriconoscenza innervata nel corpo intero della Nazione quella di lasciar scivolare via il ricordo di vite vissute sinceramente e senza clamori, strilli o gomitate, con eleganza e intelligenza: doti rare davvero, eppure tenute in scarsa stima. Nella nota introduttiva al postumo Quando internet non c’era (2009), l’editore Sellerio lo presenta come “amico, professore, ricercatore di scritture esotiche, contemporaneista di acuta sensibilità, animatore di scuole di traduzione e traduttore appassionato, esperto ispanista, viaggiatore felice, scrittore d’invenzioni, uomo libero di mente e di costumi, scout di autori stranieri, consulente editoriale ed editore di gioielli letterari”.
Morino tradusse in italiano oltre 150 titoli tra romanzi e racconti in lingua spagnola, francese, portoghese e catalana. Prima ancora che un accademico, si identificava col mestiere di traduttore, che definì in una lunga intervista “mettersi sul confine”.* In più di un’occasione mi è capitato di descriverlo come la caravella che scoprì e portò un mondo intero, la letteratura ispanoamericana, al di qua dell’Atlantico. Mario Vargas Llosa, Gabriel García Márquez, Manuel Puig e Roberto Bolaño, disse,
li ho anche introdotti in Italia, li ho fatti conoscere e pubblicare. Così è stato, agli inizi, nel caso de Il bacio della donna ragno di Manuel Puig, di cui nessuna casa editrice voleva farsi carico tanto lo trovavano scandaloso, improponibile. E lo stesso vale, in tempi recenti, ma senza nessuno scandalo, per i libri di Roberto Bolaño.
SELVAGGI INVISIBILI
Ero in quegli anni, e forse sono tuttora, uno studente curioso e inquieto. Non sostenni l’esame alla fine del corso; perdetti il passo, smarrendomi su altri sentieri. E anziché accumulare i crediti necessari ad illuminare la via e farmi largo, bruciai la mia borsa di studio, finendo in uno stallo. Era più forte di me: non riuscivo a concepire l’Università come una raccolta punti. Cercavo, leggevo, ascoltavo con avidità, più che potevo. In me avevo piegato l’immagine di Morino fino a ricondurlo all’ideale di un ricercatore indipendente con cui condividere l’entusiasmo per la letteratura viva, pulsante, più che per le sue sedimentazioni e filiazioni. Soltanto anni dopo cercai il professore per elemosinare un appello, e scoprii da un biglietto sulla bacheca del suo ufficio che era morto il 10 agosto di quell’anno.
Passò altro tempo. Nel 2009 mi iscrissi a un altro corso di letteratura ispanoamericana in due moduli che ereditavano le suggestioni e la vasta bibliografia delle lezioni di Morino, dalle Lettere ai reali di Spagna di Colombo (Sellerio, 1991) a La donna marina (1984). A parte questi particolari, il desiderio d’indagare sul percorso accademico della professoressa Eva Milano arrivò soprattutto per via della sintonia dello sguardo con quello del mio professore: malinconico, smarrito, fisso su altri cieli. In quella vacuità germogliava un’intelligenza che interrogai presto, scoprendo che era stata sua allieva e, in seguito, collaboratrice. Non potei fare a meno di notare, o forse glielo dissi anche, come Morino si circondasse di donne dai nomi evocativi. Aggiungendo tasselli alla ricerca, ho avuto modo di confermare questa impressione.
A metà del secondo modulo arrivò il compito di redigere una relazione su Roberto Bolaño, autore sconosciuto che mi aggiudicai secondo una procedura originale stabilita dalla professoressa. L’assegnazione avvenne per alzata di mano subito dopo la recitazione di una stringata sinossi, senza perciò attendere d’esplorare tutte le proposte, assumendosi il rischio di vedersi soffiare i pezzi migliori. Ad ogni modo, il titolo mi colpì per la sua brutalità: Puttane assassine, una raccolta di racconti pubblicata in Italia nel 2004 da Sellerio. Rimasi folgorato. Cominciai a leggere Bolaño in anni in cui Bolaño tra i miei amici non lo leggeva nessuno, e lessi l’intera opera, da I detective selvaggi (2009) a Notturno cileno (2002), da Monsieur Pain (1999) a Il gaucho insostenibile (2003), da La pista di ghiaccio (2004) a Chiamate telefoniche (1997) ad Anversa (2002).

Nel saggio breve che produssi in vista dell’esame riversai tutta la smania e la furia di scrivere, da sempre mutilata dalla modalità orale che viene privilegiata presso l’ateneo torinese. Scrissi una confessione esondante, immatura, prepotente: una dichiarazione d’amore a Bolaño, a Nietzsche, a Morino e alla letteratura. “Una relazione selvaggia”, la apostrofò Milano, cassandola e suggerendomi, “come diceva il santo Morino”, di “dire quello che vuole dire senza far capire d’averlo detto”. Dietro questo consiglio intravidi l’astuzia del professore navigato che ha compreso come accanirsi contro la scorza politica dell’istituzione non frutta se non dolore ed è bene, per conservare intatti i propri tratti di libertà, incunearsi, incanalare la corrente impetuosa del pensiero sotto la superficie e da lì farsi strada, per poi riemergere forti, sfuggendo ai compromessi peggiori.
Tentai di far fruttare la lezione postuma. Non fu facile, specie dopo letture così schiette e furibonde, agitare le ali dell’invisibilità del mio professore, diametralmente opposte al “realismo viscerale” di Bolaño che, tra l’altro, era stato suo amico. Quello scrittore sanguinante aveva nel suo traduttore una nemesi di tormento e rarefazione. L’invisibilità per lui era una virtù.
Sento spesso traduttori lagnarsi dell’invisibilità, della loro invisibilità agli occhi altrui. Ma proprio a questo dovrebbe mirare un buon traduttore: essere invisibile. L’invisibilità non è una condanna: è un obiettivo da raggiungere.
Le simmetrie tra i due sono materia da romanzo. Li accomuna persino una morte prematura, estiva, Bolaño a 50 anni e Morino a 57. Lo scrittore cileno tratteggiò il profilo del suo amico nell’ombra di Piero Morini, uno dei personaggi di 2666. Professore torinese traduttore delle opere di Benno von Arcimboldi, Morini è finito sulla sedia a rotelle dopo una diagnosi di sclerosi multipla e un grave incidente. Come se non bastasse, è quasi cieco. Ama riportare stralci de Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz, documento realmente scritto dal quasi omonimo Angelo Morino edito nel 1999. Il labirinto o divertissement di Bolaño (con la complicità di Morino) si fa lampante grazie alla nota che accompagna l’edizione italiana di Notturno cileno, nel quale l’accademico incoraggia i lettori a seguire gli inviti del romanziere a operare una “risalita dal romanzo alla realtà”.
FORME
In merito a questi tentativi d’ascensione, va sottolineato il metodo di Morino. Essere professore universitario e fare ricerca non corrispondeva a presenziare a dibattiti accademici a porte chiuse, a conferenze e convegni. Cercare e inseguire libri e scrittori equivaleva per lui a gettarsi in un’orgia di corpi e di storie, un’avventura parimenti fisica e intellettuale, la stessa di Arturo Belano e Ulises Lima, i protagonisti de I detective selvaggi, e dei critici nella prima parte di 2666. I primi vanno in cerca dell’elusiva poetessa Cesárea Tinajero, ispiratrice del movimento letterario dei “realvisceralisti”; i secondi del misterioso scrittore tedesco Benno von Arcimboldi. A sua volta Morino, in Quando internet non c’era, descrive la ricerca tra vecchio e nuovo mondo di María Luisa Bombal.
La giustapposizione a Morini e le tracce d’intertestualità disseminate qui e là da Bolaño e dallo stesso Morino assumono talvolta tratti d’inquietudine. Citarlo in 2666 sarà stato un omaggio, oppure Bolaño ne avrà previsto la morte, intanto che s’affrettava a scrivere combattendo lui stesso la sua malattia? Chissà. Resta il fatto che la letteratura per Bolaño era, parole sue, “un mestiere pericoloso”, e Morino, oltre a insistere sul suo mestiere come un “trafficare con la letteratura”, intitolò un ciclo di lezioni Letture pericolose, perché i personaggi dei libri selezionati—Madame Bovary, il Chichotte e Il bacio della donna ragno di Puig—scambiano continuamente finzione e realtà.Sia come sia, i sussurri dei due scrittori mi persuasero che cercare il sottotesto in entrambi gli universi, nella finzione e nella realtà, non è affatto una cosa da sprovveduti, né si può riassumere come allenamento dell’occhio alla malizia. Certamente questo procedere a tentoni ha meno a che fare con la filologia e più con la balistica. Si accorda con una forma del pensiero raminga, incerta e misurata, che fa a pugni con il vitalismo del corpo e l’urgenza di approdare alla verità. È un’attitudine che fa il paio con uno scrivere convulso, dolente e, in fin dei conti, terapeutico: un approccio che condivido con Morino, per il quale scrivere libri non è “una benedizione né uno spasso”, bensì un “mal di pancia da sopportare, che non garantisce niente”.
Per molti anni, sono riuscito a evitarmelo o – chissà – a trovare dei sostituti. Mi dicevo che andava benissimo quello che facevo. Adesso, nella mia vita, le cose sono cambiate e non riesco più a evitarmelo, il mal di pancia. Tutta quell’incertezza che significa mettersi a scrivere un libro. Come un mettersi in marcia da non si sa bene dove verso non si sa bene dove. Ce la farò? Non ce la farò? Il problema è trovare il modo per dirlo, per scriverlo. Ogni storia ha la sua forma e non è così facile trovarla, si procede per approssimazioni, senza sicurezze.
Dopo aver messo insieme un arsenale di traduzioni e saggi critici, Morino abbandonò le parole altrui e si preparò per intraprendere la scalata più difficoltosa: quella a ritroso, in se stesso. Per scrivere, o per meglio dire per tradurre la sua storia, perché “scrivere è anche—in modo più o meno manifesto—un voler dare forma al proprio passato, che, restando nel vissuto, una forma non ce l’ha”. Approdò al romanzo con Rosso Taranta (2006), mentre vennero pubblicati postumi In viaggio con Junior (2011), il citato Quando internet non c’era e l’ultimo, Il film della sua vita (2012). Ultimo, sebbene concepito per primo, a fine anni Novanta, come pietra angolare di un’esistenza vissuta e da romanzare, ancorata alla figura della madre. È infatti la madre, Liliana, la chiave di volta dell’architettura narrativa di Morino. I quattro romanzi sono i petali di una rosa di parole, un corpo di segni grafici che riverbera, fino all’ultimo punto, il corpo dell’uomo. Corpo indomito e fragile, spensierato e dolente, che ha viaggiato ed esplorato, incontrato e conosciuto luci e ombre, inferni e paradisi, come tutti. Questo corpo che ha seguito le stagioni ed i venti tra le pagine si libra e si inabissa, rifugge e combatte i ricordi, racconta i desideri ed i sensi, tessendo una storia con la carne che lo compone: l’inchiostro. Disvela ali d’angelo, invece, quando include le parole incrociate, amate, le migliaia di parole tradotte. Spazia, si espande e fa ritorno, infine, al suo centro mortale, indimenticato, ancora una volta, al corpo primario. Vi converge, vi rientra, si annulla, scompare. La partenogenesi narrativa di Angelo Morino nasce con la madre, e nella madre, infine, si esaurisce.




IL DONO
È stato il recente incontro, ancora una volta, con Angelo Morino, a persuadermi finalmente a scrivere di lui. Un compito rimandato per anni e anni. Ma era venuto il momento per questo piccolo omaggio, il mio modo di nascondere la sublimazione di una, e di altre, perdite importanti.
Bazzicavo, come spesso avviene, la Biblioteca di Scienze letterarie e filologiche di via Bava, a Torino. Ci vado in cerca di wi.fi o di quel silenzio prodotto dalle menti all’opera così diverso dal silenzio della solitudine. Più denso, più salubre, e complice. Riflettendo su un pezzo di prossima redazione incentrato sull’estate, pescai Cesare Pavese dallo scaffale, e sulla prima pagina de La bella estate, accanto al sigillo della biblioteca, vidi un altro timbro: “Dono del Prof. Angelo Morino”. Mi commosse. Cercai i suoi testi, editi da Sellerio, e li trovai. Tra i romanzi c’erano anche un paio di raccolte di poesie delle quali ignoravo l’esistenza (Morino era anche poeta!) e trovai anche lì, su tutti i volumi, lo stesso timbro. Dedussi quindi che il dono dovesse essere un’eredità cospicua; forse persino l’intera biblioteca personale, dopo la sua morte, era confluita in via Bava, come un corso d’acqua che cambia direzione. Pensai che con una lista dei doni avrei potuto farmi un’idea dei gusti letterari di Morino, ricalcare le orme della sua esplorazione. Domandai allora al personale della biblioteca se per caso fosse possibile averla, e venni rimandato al Direttore.
Roberto Bosco mi chiese per quale motivo mi occorresse il materiale. “Per scrivere un articolo sul professor Morino”, risposi sinceramente: “Per ricerca”. Bosco mi rivelò che recuperare i libri del futuro Fondo Morino era stato il suo primo incarico appena trasferito in via Bava, nel 2008.
“La casa di via Santa Chiara era la classica casa del lettore accanito.”
“Libri dappertutto?”
“Libri impilati persino accanto al gabinetto.”
“Quanti erano? Quanti sono?”
“Circa 5.000 volumi. Una decina andarono perduti per via di una infiltrazione.”
“Non riesco neanche a immaginarmeli.”
“Beh, pensi a questo”, disse ponendo le mani come a segnare una distanza invisibile. “Per fare un calcolo approssimativo degli spazi, noi diciamo sempre che in un metro stanno in media 27 libri.”
“Quindi, sarebbero…”
“Sarebbero…”
“Circa 200 metri.”
“200 metri, sì.”
“200 metri di letteratura.”
“200 metri di letteratura.”
Parlammo ancora di Morino, del suo ruolo nell’Università. Entrambi avevamo solo frammenti da scambiarci, come figurine. Chissà, però, Bosco doveva averne letto il testamento, e forse lì era stata vergata qualche parola che faceva da epitaffio rispetto alla sua carriera, o era inclusa qualche clausola che restituiva all’istituzione le offese ricevute. Mi trattenni dal domandare. Sottolineai invece quanto fosse curioso che, nonostante tutto, tra le sue ultime volontà, Morino avesse scelto di lasciare il suo tesoro proprio lì, nel ventre di un oceano di convenienze e di connivenze dove i professori tra loro si salutano sempre con l’epiteto “Caro”, che sta per “carogna”. I libri erano uno scrigno, un antidoto nascosto nel corpo malato dell’Università. Un dono agli studenti in ricordo di coloro che più l’avevano stimato, ammirato e amato. Il viaggio che continuava di mano in mano era l’ultimo schiaffo ai detrattori, un gesto invisibile e nobile che per converso gettava una luce impietosa sull’istituzione.
Uscii dall’ufficio riflettendo su quei 200 metri di letteratura. 200 metri che certo non colmano gli abissi nel cuore di un uomo che non ho mai conosciuto, né i pensieri e i misteri celati persino agli amici più cari, ma che tuttavia, certamente, lasciano intuire la scia della caravella. Quante pagine avremmo sfasciando i volumi? E sciogliendo i paragrafi, le parole, le lettere, copriremmo quali abissali distanze? E aggiungendo le voci tradotte, le confessioni, i sussurri? Non c’è modo di saperlo, né ritengo che ad ogni modo la rotta che ha unito il vecchio al nuovo mondo esaurisca il ricordo e il segno di Angelo Morino, colui che forse, davvero, nessuno può comprendere.
* Tutte le citazioni sono tratte dall’intervista reperibile qui